Gli stridii dei geiste si erano fatti più bassi. Vibravano attraverso la roccia sotto ai piedi di Malekith, fino a fargli tremare il cuore nel petto. A una ventina di metri, la Spaccatura si apriva nel fianco della montagna, come se il colpo di una gigantesca lama l’avesse incisa. Le leggende sul Mont Noire non erano mai state granché allegre, e quelle che si erano rivelate vere lo erano ancora di meno.

Maledetto Kell, perché re Levon si è tanto fissato con questa storia di risvegliare la Legione?

Trèville, con un sorriso estatico sul volto, indicò il crepaccio.

«È il momento!»

Erano giunti su una piattaforma di pietra scavata con precisione nel fianco della montagna, al riparo dalle folate di vento. Le grida degli spettri, però, continuavano. Più Mal si avvicinava, più le sentiva penetrare fin dentro alle ossa. Planchet ringhiò in direzione del mago.

«Cosa aspetti? Inizia con il tuo rito.»

Il cavaliere, dall’alto dei suoi due metri e passa, piantò gli occhi su Fern.

«Avanti, Guercio.»

Lo spadaccino si voltò verso di lui. Il suo sorriso aveva una nota stonata, amara.

«Mal, devi farmi un ultimo favore.»

«Un favore?»

Non capiva, e la cosa non gli piaceva. Aveva tutti gli occhi puntati addosso, da Trèville, a Planchet, fino agli altri quattro soldati. Puzzava di trappola.

«Sangue reale, per obbligare all’antico voto…» recitò Trèville.

«Sta’ zitto!» sibilò secco Fern.

«S-sangue reale?» Fu come se il mondo gli crollasse attorno, e rimanessero solo quelle urla. «Tu… tu gliel’hai detto.»

Indietreggiò. Lo spadaccino alzò le mani.

«Ho dovuto, Mal. Ti prego, capisci.»

«Volete ammazzarmi?»

Ordinò alla sua mano di correre al pugnale, ma il suo corpo non rispondeva più. Si limitava solo ad andare indietro, come se cercasse il bordo dello strapiombo.

«No, no! Assolutamente no. Ha detto che serve solo un po’ del tuo sangue. Anche qualche goccia, roba da niente…»

Trèville, a destra di Malekith, passeggiava sul ciglio della Spaccatura.

«Un litro o una goccia, non cambia nulla.» Si sfregò le mani. «L’antico vincolo fu stretto sul sangue di un re, e solo il sangue reale può svegliare la Legione. Quello, e il mio modesto contributo.»

Aveva lo sguardo estasiato, un sorriso a trentadue denti che gli deformava il volto magro, come se non fosse naturale per la sua bocca tirarsi tanto.

Planchet lo fulminò con gli occhi, ma rimase zitto. Aveva la mano posata sull’impugnatura della spada. Fern si avvicinò piano, frugò nella scarsella e tirò fuori un cristallo rosso sangue, uno più grosso del solito. Lo stomaco dell’alfnar diede un altro morso, e lui fece per allungare la mano e prenderlo.

«Facciamo così, Mal. Tu ti fai fare un taglietto dallo stregone e io ti do questo. Fidati di me, ti prego.»

Di nuovo quel sorriso amaro.

«N-no, Fern, io… t-tu non mi puoi tradire… noi due…»

Le lacrime uscirono da sole, bollenti, e divennero ghiacciate già a metà guancia. Fern gli prese la mano, rapido come una serpe. Mal fece per tirarsi indietro, ma si accorse che l’altro non stringeva. Si avvicinò, il volto a un paio di centimetri dal suo.

«Io non ti ho tradito. Non ti tradirei mai. Ci sono cose grosse in gioco, ma ascoltami: non gli permetterò di farti nulla. Mi hai sentito?»

«Fern, io…»

«Andiamo, ragazzo. Ti ho mai deluso, in tutti questi anni?» Lo spadaccino lo prese per le spalle. «Da quel giorno, in quel vicolo ad Alavir, ti ho mai deluso?»

Gli ritornò in mente Calat che gli porgeva quella stupida ciotola di chicchi di melograno.

Basta non farsi strozzare. È così semplice…

«N-no, Fern.»

«Ti fidi di me?»

«Sì, Fern.»

Lo spadaccino annuì.

«Ripetilo, ragazzo mio.»

«Mi fido.»

«Ancora una volta.»

Malekith inspirò a fondo.

«Mi fido di te, Fern.»

L’uomo gli strizzò l’occhio e gli strinse le spalle come se volesse abbracciarlo, ma non potesse.

«Così, ragazzo. Io sono qui con il tuo premio. Sono qui con te.»

Lo scortò fino da Trèville. Mal si tolse il guanto e porse il palmo, lo stregone chiuse le sue dita ossute in una fragile presa sul polso. L’alfnar guardò oltre il bordo della Spaccatura. Nella roccia nera era scavato qualcosa: decine e decine, no, centinaia, di nicchie. E dentro di esse, migliaia di ossa, mezze coperte di neve e ghiaccio. Non fece in tempo a vederle con più attenzione che il dolore gli ustionò il palmo. Gridò, Trèville ridacchiò soddisfatto, con un lungo coltellaccio stretto in mano. Lo spinse indietro con una forza che prima non aveva. Malekith, per il dolore o forse per la stanchezza, barcollò alla cieca. Fern lo sostenne, prendendolo per la schiena.

«Tutto bene, ragazzo, tutto bene.»

Lo spadaccino teneva lo sguardo pieno di odio fisso su Trèville. Con uno scatto del coltello, il mago spedì qualche goccia di sangue giù nel vuoto. Sfregò la lama con le dita e si accucciò a disegnare sulla pietra con il sangue. Fern mise il cristallo in mano a Malekith e lo lasciò andare. Lui se lo mise sulla ferita e un lampo, a metà tra dolore e piacere, gli trapassò le dita. Il palmo bruciò, ma non come per il taglio di prima. Una sensazione più dolce, meno pungente, gli si irradiò lungo il braccio, su per i muscoli, fino alla spalla, al collo. Osservò il cristallo sciogliersi a velocità sorprendente a contatto con il suo sangue, la pelle della mano diventare come traslucida. Le vene al di sotto si contorcevano come tanti piccoli serpentelli. La botta arrivò al cervello, strisciando su per la mascella. Non sentiva più le urla. La foschia che circondava il Mont Noire si era tutta concentrata nella Spaccatura, come una nuvola di fumo bianco. L’aveva detto, lo stregone. I geiste tornavano nelle loro vecchie ossa. Giù a valle, l’esercito del re era costituito da migliaia di minuscoli puntini. Sia il suo che quello dei suoi avversari, i conti ribelli del sud, erano nitidi, come tante formichine in formazione. Era strano. La nebbia si muoveva da sola, strabordava pian piano nella valle. Sembrava davvero che qualcuno ci camminasse dentro. L’effetto del Sangue di Drago era così forte che ora tutto il suo corpo vibrava di puro calore. Avrebbe voluto spogliarsi, si sentiva incandescente. Era sicuro che, se l’avesse toccata a mani nude, la pietra nera del monte si sarebbe sciolta. Non riusciva a mettere bene a fuoco, ma le cose dentro alla nebbia, giù a valle, stavano… ballando? Una danza di piccoli movimenti, una musica acuta, fatta di clangore e sibili, stridii.

Grida? Ma le grida sono finite. I geiste sono…

Le formichine correvano impazzite, si allontanavano, correvano incontro alla nebbia, si disperdevano di nuovo. La foschia che danzava li stava coprendo entrambi. C’era qualcosa di sbagliato, ma non aveva idea di cosa fosse. Una voce, una voce lontanissima, dietro di lui, gli suggerì che forse c’era da preoccuparsi. In effetti, era preoccupata. Pareva proprio quella di Fern.

«Oh, merda!»

 

***

 

«Malekith!»

La voce era lontana, ma gli pareva di conoscerla. Si sentiva come immerso nell’acqua, sballottato dalla corrente, incapace di restare a galla senza aggrapparsi a quel pensiero. Il calore del suo corpo andava attenuandosi. Attorno a lui, lame che si scontravano.

«Riprenditi, cazzo!»

L’urlo fu così vicino che lo riportò lì. Fern ringhiò di dolore, stringendosi con la sinistra la spalla sanguinante, la spada ancora in pugno, ma bassa. Tornò tutto in un momento. Il suo corpo bruciava, andava a fuoco a contatto con l’aria gelida della montagna. Colse un movimento alla sua destra e mollò una gomitata d’impulso. Centrò qualcosa di secco che andò in pezzi e cadde indietro. Mal sbuffò fumo rosso. Quello che aveva colpito era un uomo, forse, ma di nebbia. Aveva un abbozzo di volto fatto di fumo bianco sporco. Dal suo corpo caliginoso, come fosse dell’acqua fangosa da cui spuntano oggetti sepolti, emergevano i bordi di un pettorale di ferro arrugginito. Al posto della faccia spuntava quel che rimaneva di un teschio dallo zigomo spaccato. Tra le dita solo ossa sbiancate. Fece un passo indietro, la mano andò al pugnale. L’essere si rialzò e tornò ad avanzare verso di lui.

Kell fottuto!

In due falcate gli fu addosso, una vecchia ascia stretta nella mano. Mal bloccò il suo movimento con il braccio, immergendo le dita in quel polso fatto di fumo e chiudendole sull’osso. Piantò il pugnale nero poco sotto lo sterno. Quell’affare non fece una piega. Era abbastanza leggero, però, niente più che un sacco d’ossa. Mal lo spinse indietro e gli sferrò un calcio nel petto, buttandolo giù dalla scarpata. Il gemito di dolore di Fern lo attirò a sinistra. Lo spadaccino gli stava coprendo le spalle, la sua lama saettava a destra e a sinistra. Ma tre avversari immortali erano troppo anche per lui. Il fianco e la gamba gocciolavano sangue sulla neve e la pietra nera. Un lampo, il volto dello spadaccino con la gola tagliata gli passò davanti agli occhi. Batté le palpebre. No, era ancora lì, non l’avevano colpito. Non l’avrebbe permesso, non stavolta. Caricò, ne centrò uno con una spallata di pura potenza e lo ribaltò addosso all’altro, mandandoli a rotolare a due metri di distanza. Estese il pugnale e con l’asta sgambettò il terzo, facendolo cadere.

«Fern! Cosa—»

«Trèville.» La voce dello spadaccino era un sibilo. Si voltò subito verso i due non-morti che Mal aveva buttato a terra, erano già pronti alla carica.

«Vai, porca troia!»

L’alfnar scattò verso il ciglio della spaccatura. Lo stregone, avvolto nella sua palandrana nera, era chino su un corpo di nebbia, gli accarezzava la testa e ridacchiava. Mal superò Planchet, che stava spaccando a pugni il cranio di un essere di foschia. Il cavaliere aveva un coltello arrugginito piantato sotto l’ascella. Uno dei non-morti gli corse addosso con un’agilità che l’alfnar non si sarebbe aspettato. Non aveva tempo per affrontarlo, e la roccia sotto i suoi piedi era liscia a sufficienza. All’ultimo secondo si gettò in scivolata e lo colpì alla gamba col pugnale, che spaccò il ginocchio come fosse un ramo. Non l’avrebbe fermato, ma gli dava tempo. Trèville rise, fece scattare la mano e gli lanciò una saetta.

«Oh, perché ve la prendete tanto?» ridacchiò, come un bambino. «La Legione l’ho svegliata io, è mia!»

Mal saltò oltre il colpo, che sbriciolò la roccia sotto i suoi piedi. Un attacco sgraziato.

Nulla a che vedere con quelli di Ven.

Il pensiero gli attraversò il cranio come un dardo.

Lo stregone lanciò un’altra, goffa folgore. «Vieni a crepare, imbecille!»

Andò a vuoto. Mal si muoveva più veloce di quanto avesse mai fatto in vita sua. Ancora per poco, però. Il Sangue di Drago non dura in eterno, nemmeno se te lo fai sciogliere in vena. Prese un coltello da lancio dalla cintura e lo tirò di lato. Lo deviò con una spinta del pensiero, fu come sfiorarlo con le dita, anche se era già lontano.

«Figlio di puttana!»

Il mago incespicò indietro, il piede trafitto. Mal fece un balzo e gli atterrò a due passi, lo afferrò per il collo e gli piantò una craniata sul naso. La cartilagine si sbriciolò e un fiotto di sangue gli arrossò il viso, ma il suo storto ghigno maniacale non si spense.

«Tu… non mi porterai via la mia eredità! Non ti permetterò—»

Mal pose fine alla frase conficcandogli il pugnale in gola, poco sotto la mascella. Trèville provò a sputare qualcosa, ma gorgogliò solo bolle rosse.

«Zitto.»

Mal lo calciò giù dal dirupo. Si voltò, col sorrisetto sulle labbra, e restò paralizzato. I non-morti di nebbia erano ancora tutti lì.