Inverno, 1249 A.D.
Fu come se avesse spezzato qualcosa. Fern e un altro individuo, un uomo dai capelli castani, spostarono gli occhi dal tavolo a lui. Ci volle un istante perché sul volto dello spadaccino si disegnasse il sorriso di sempre.
«Mal, ragazzo mio! Lo sapevo che ti saresti liberato da solo.» Rise.
Anche l’altro abbozzò un sorriso risicato. Fece guizzare lo sguardo dall’alfnar a Fern e di nuovo su Mal, come se non capisse chi stava scherzando con chi. Si grattò con due dita la cicatrice che gli incideva la pelle liscia della guancia. Fern strofinò la benda.
«Lo stavo dicendo al nostro nuovo amico. Vero, Tays?»
Quello annuì.
«Stavamo giusto per partire… per venire a cercarti.»
Lo spadaccino si alzò e allargò le braccia.
«Sei ferito, ragazzo? Non stare lì sulla soglia, tutto zitto, vieni dentro, avanti.»
Mal però non era zitto, non dentro di sé. Nella sua testa urlava con tutto sé stesso per zittire quelle voci, così simili a quella di Fern, che gli gridavano addosso ogni dettaglio storto della stanza. Nessuna traccia di lotta, nessuna ferita, niente sangue. Sul tavolo c’era una bottiglia di grappa mezza vuota, e tre bicchieri. La spada e la daga di Fern erano ancora nel fodero. Il sorriso di quello chiamato Tays aveva una sottile increspatura di tensione.
Cazzate. Hanno rimesso a posto una volta che Fern li ha convinti, ha fatto loro una controproposta. Stavano per venirmi a prendere.
Tays si alzò e venne verso di lui. Il suo sorriso era sempre più forzato. Gli tese la mano.
Volevano venirmi a prendere, volevano liberarmi, Fern non può…
La sinistra dell’uomo scese lungo fianco, seminascosta dallo svolazzo della veste. La voce del ragazzino sul carro, che chiedeva del fratello, gli rimbombò nel cranio.
«Tu quindi devi essere il famoso Mal…»
Non badò alle sue parole. Lo attrasse di più l’impercettibile scintillio del manico del pugnale dietro alla cinta.
«Ho sgozzato il tuo fratellino, amico.»
Tays si irrigidì. Contrasse la mano per accelerare il movimento. Mal fu più rapido. Estrasse il pugnale nero con la sinistra, il manico scattò avanti. Come un dardo, la punta gli slabbrò la trachea e la metà destra del collo. Un lampo di panico nei suoi occhi, e le dita del giovane Tays mancarono il pugnale. Si afferrò il collo, le gambe cedettero. Cadde in maniera identica al suo fratellino. Mal fece appena in tempo a sentire lo strisciare dell’acciaio fuori dal fodero. Si girò di colpo e parò l’affondo di Fern con la sciabola, balzando di lato. Evitò di stretta misura la punta della sottile spada dell’uomo. Ritrasse il manico del pugnale e indietreggiò. Il petto gli era diventato un blocco di ghiaccio.
Non è possibile, non è possibile, non è…
Fern trasformò la smorfia che gli stava nascendo sulle labbra in un sorriso.
«Ti ho insegnato troppo bene, cazzo.»
Il suo unico occhio era diventato freddo. Scorreva addosso a Mal, analizzava la posizione delle gambe e della mano, l’atteggiamento, calcolava vantaggi e svantaggi. «Dovevo lasciarti a crepare mentre eri ancora strafatto, altro che disintossicarti.»
Non ascoltare. Non farti distrarre…
«Perché?» ringhiò, ma nella sua testa la sentì come la sciocca domanda di un poppante. Il sorriso dello spadaccino si fece tagliente.
«Perché? Perché hai una taglia sulla testa che mi avrebbe sistemato a vita.»
«Era solo questo? Solo per i soldi?»
Il colpo di Fern era andato a segno. Mal strinse la presa sulle armi.
«Io mi fidavo di te!»
«È sempre e solo una questione di soldi. Avresti fatto lo stesso, nella mia posizione.»
Avrebbe solo voluto piangere. Voltare la schiena, scappare e piangere finché la neve non avesse congelato lui e le sue cazzo di lacrime. Ma c’era quel gelo così terribile che gli bruciava nel petto, strisciandogli dentro i muscoli delle braccia, e che lo teneva inchiodato lì. L’uomo dovette accorgersene, perché le sue labbra presero una piega ancor più soddisfatta.
Vuole farti attaccare. Vuole che tu ceda all’ira. Un combattente arrabbiato è un combattente morto.
«Cosa t’aspettavi? Pensi di essere speciale, solo perché ti ho tenuto con me?»
«Mi hai usato. Mi hai usato dal primo momento, da quando mi hai fatto uccidere Valadier.»
Sul volto di Fern si dipinse per un momento una maschera di vera ilarità. Scoppiò a ridere.
«Valadier? Oh, sei più idiota di quanto pensassi, stupido coglione.»
La sua voce era veleno. Mal strinse i denti, le dita, tutto quel che poteva, per resistere e non partire alla carica.
«Sai perché ti ho salvato dagli sgherri di Dreke, ad Alavir, la prima volta che ci siamo conosciuti? Per usarti.»
«Che cazzo stai dicendo?» gridò Mal, stridulo.
Iniziò a girare verso sinistra, il lato cieco di Fern, e lo spadaccino lo seguì. I loro passi, lenti, iniziarono a disegnare un cerchio.
«Io e Ven spiavamo Dreke da settimane. Ci serviva solo un pollo su cui scaricare la colpa dopo la rapina. E quando ti abbiamo visto uscire a calci nel culo da quella casa, abbiamo capito che eri il capro espiatorio perfetto.»
«Palle. Ven… lui, lui mi ha accettato, quando sono tornato. Ero uno dei suoi.»
Fern fintò un passo avanti e Mal scattò indietro, la guardia tesa, nervosa. Voleva vedere i suoi tempi di reazione, e lui, da bravo idiota, l’aveva appena servito. Lo spadaccino ridacchiò e continuò a girare.
«Ven si è rammollito, si è affezionato a te. Una notte mi ha raccontato che gli ricordavi lui da giovane. Povero idiota.»
L’occhio di Fern indagava ogni singola contrazione, ogni più piccolo movimento del volto dell’alfnar.
«Un povero idiota che è diventato un bel problema, però. Affidare lo smercio della droga al circo di spie del re e tenersi la cresta era una bella idea, ma attuata male. Ci hanno messo un minuto a scoprirlo, e serviva solo chi lo incastrasse.»
Non rispondere. Non ascoltare, stai zitto, non dire…
«Oh, è stata una passeggiata sfruttare quel piccolo frocio di Berry a mio vantaggio, Mal. Hanno sospettato tutti di te dal primo momento, ma la protezione di Berry l’innamorato ha fatto la sua parte egregiamente. Senza di lui, Larue ti avrebbe sgozzato la prima notte.»
«T-tu… tu l’hai…»
Non farlo, idiota!
Un’altra voce sovrastò quella della prudenza.
Malekith!
«Ho ucciso io Berry, e tutti gli altri al campo.» Fern affondò il colpo di grazia. «A Ven non ho dovuto dedicare nemmeno un minuto. Hai fatto tutto tu.»
La rabbia si tramutò in ghiaccio nelle sue vene. Non si diede il tempo di pensare.
Attacca il lato cieco.
Fern se lo aspettava di sicuro, ma era vecchio, e aveva bevuto. Mal aveva più forza dalla sua, più allungo, più rabbia. Falciò con un mulinello violento, così rapido che, se l’avesse parato, la lama di Fern si sarebbe…
«Ah!»
Una fitta gli azzannò la carne del braccio, tra il bicipite e l’ascella. L’istinto lo salvò, facendolo balzare indietro. Le dita della destra si intorpidirono e il dolore iniziò a trasformarsi in una sensazione umida e bruciante. La punta della spada di Fern era appena arrossata, entrata per giusto un dito.
Come cazzo ha fatto?
Lo spadaccino ridacchiò e si tolse la benda sull’occhio sinistro con uno dei rami di guardia della daga.
«Non avrai pensato che ti abbia detto tutti i miei trucchi, no?»
Lanciò la benda sul tavolo e quella atterrò con un secco tlack, come fosse un pezzo di vetro. La sciabola nella mano di Mal si faceva sempre più pesante. Fern partì all’ attacco. Passo avanti e affondo, rapido come il guizzare di una serpe. Mal, ancora stordito dal dolore, fece una goffa spazzata, priva di controllo, con la sciabola. Il braccio gli lanciò un lampo di dolore, e la lama di Fern aggirò veloce la sua parata. L’alfnar corse indietro, agitò il pugnale per parare. Deviò due volte l’acciaio di Fern. Alla terza, la punta gli sibilò sul petto, senza altri danni se non far saltare qualche bottone. Mollò la sciabola ed estese il pugnale nero. Fece piovere una raffica di affondi sullo spadaccino per tenerlo indietro. Per nulla impressionato, Fern parò e schivò con una fluidità che una persona con dieci anni in meno di lui avrebbe fatto fatica ad avere. La sua spada cercò di mozzare le dita avanzate di Mal, costringendolo a toglierle dall’asta. L’alfnar balzò via, rotolò a terra a denti stretti e lo punzecchiò da sotto, ignorando il dolore acuto al braccio, che si irradiava fin dentro alla spalla.
Resisti!
L’uomo bloccò un affondo della lancia, incrociando la spada e la daga. Fece un passo avanti e fermò l’asta tra le gambe, spingendo per strappargliela di mano. Mal ritrasse la punta e Fern se ne accorse all’ultimo. La lama gli lacerò una coscia, strappandogli un ringhio di dolore.
«Fottuto bastardo!»
L’uomo incespicò in avanti e mollò una rasoiata alla testa. L’alfnar parò appena in tempo, la lama gli graffiò una nocca. Si alzò e tirò un altro affondo, Fern schivò piegandosi. Falciò basso e incise la gamba di Mal sopra il ginocchio. Un’altra vampata di dolore. Il giovane gli abbatté il manico della lancia sulla schiena. L’uomo scattò avanti, l’alfnar gli afferrò il polso, fermando una coltellata diretta al petto. Lo sbatté contro un armadio con un ruggito, mandando in frantumi i vasi di coccio e i fiaschi sulle mensole pericolanti. Fern ringhiò e gli assestò un calcio nel petto. Mal barcollò indietro e lo tirò con sé per una manica, lo spadaccino affondò una punta con la spada al suo ventre. Riuscì a spostarsi abbastanza da non essere colpito in pieno, e la punta gli tagliò solo la pelle. Fern fece per estrarla, ma il movimento di Malekith l’aveva incastrata nella veste imbottita, e tirò a vuoto. L’alfnar lo centrò con un destro allo zigomo e lo rispedì indietro. Lo schiantò di nuovo al muro contando sulla sua forza. Afferrò la guardia della spada e la strappò dalla sua mano. Lo schiacciò contro il muro col corpo e alzò il pugnale nero. Un dolore acuto gli esplose sotto al fianco, poco sopra la coscia. L’acciaio della daga gli scavò nella carne. Urlò. Fern gli mollò una craniata sul naso e tutto divenne un tripudio di luce e dolore pulsante. Crollò a terra, lo spadaccino gli si gettò sopra. Il suo peso gli spremette il fiato fuori dai polmoni. Mal ringhiò, lottò per ribaltarlo. Affondò il pugnale alla cieca e sentì la carne sotto la lama, un grido nelle orecchie. Buttò Fern di lato e lo tenne giù con la destra, la spalla che bruciava sempre di più, e con la sinistra alzò il coltello. Fece appena in tempo a inquadrarlo, con la vista offuscata. Mirò alla gola. Fern gli assestò una pedata all’inguine. Il cavallo dell’alfnar s’incendiò di dolore, così forte che il male gli strisciò fin nel ventre e salì ancora, trasformandosi in un conato di vomito. Scivolò su di lui, affondò di nuovo alla cieca. Qualcosa lo pugnalò ancora alla coscia, un colpo al ventre, un pugno al viso. Si agitarono l’uno sull’altro come due cani, ringhiando d’odio e di dolore. Senza sapere come, Mal si trovò la testa di Fern schiacciata in faccia, e sentì la sua lama sulla gola.
No!
Morse d’istinto la prima cosa che si trovò sotto i denti. Qualcosa di gelatinoso gli entrò in bocca. Era salato, si mischiava col sapore metallico del sangue. Strappò. Fern lanciò un grido stridulo e si tirò su, portando la mano all’occhio morsicato.
«Kell fottuto! Il mio occhio!»
Mal lo pugnalò all’addome con la poca forza che gli rimaneva e sputò un pezzo del suo occhio. Lo rovesciò sulle assi del pavimento e andò avanti ad affondi, ancora e ancora, finché il braccio non resse più. Crollò accanto a lui. La punta della daga di Fern gli graffiò contro una costola. Il suo vecchio maestro lo guardava fisso, con un occhio ancora buono e uno ridotto a una poltiglia sanguinolenta, la gola una voragine rossa. Malekith faceva fatica a respirare. Era così doloroso che temette di avere un pugnale nel petto. Si sfiorò il ventre, il fianco, la gamba. Troppo, troppo sangue. La testa gli girava, ronzava. La stanza era piena di ombre. Ombre che lo fissavano. Una con la gola tagliata, una con due fori nel petto. Un’altra, con la testa inclinata in una strana angolazione. Sopra di lui, una si alzò, più nitida delle altre. Il volto di Fern emerse dal buio.
No! È impossibile, io…
Un ghigno da iena, e occhi rossi. Il Cremisi gli sorrise. Mal cercò di strisciare via, ma non riusciva a muoversi. Una voce morbida gli accarezzò le orecchie, e re Dimas si chinò su di lui.
«Sei da solo, adesso.»
Provò a parlare, ma aveva la gola piena di sangue. Suo padre fece un sorriso benevolo.
«Hai sempre avuto paura di restare solo, vero? Senza nessuno che ti guidi. Solo con te stesso.»
Le ombre si chiusero su di lui, tutto divenne scuro, così scuro…
«Chi sei, Malekith?»
***
Primavera, 1250 A.D.
Calat se ne stava rivolto verso la finestra, a guardare il fianco della montagna, la schiena dritta e le mani intrecciate dietro di essa. Aveva ripreso il corpo di Ronac, ma Malekith lo vedeva sotto una luce strana. Uno spirito dentro un pupazzo, come se gli piacesse quella buffa prigione. Non aveva spiegato come avesse fatto, forse quel suo corpo invisibile era una specie di spettro, o chissà che altro. A essere sinceri, non gliene fregava niente. Tutto quel posto era strano, ma ci si trovava bene, in un certo modo.
«Come mai non mi sorprende che tu voglia lavorare per me, Malekith?»
La vena di sarcasmo nella voce di Calat lo urtava. Sarebbe stata tagliente, in altri casi, ma in quel momento lui, il male che fanno i tagli, se lo ricordava fin troppo bene. Il petto, il fianco, la spalla, la gamba, tutto pulsava ancora di un dolore sordo, anche se le ferite si erano già chiuse da giorni.
«Ho lavorato per te anche in passato» mormorò. «Anche prima di sapere che lo stavo facendo, no?»
«Ti riferisci alla storia di Venice?»
«Sì» disse l’alfnar. «Mi avete usato. Fern mi ha usato da molto prima.»
Il corpo del golem di pezza si afflosciò, e i piedi invisibili di Calat accarezzarono il tappeto.
«Malekith, il giorno che la smetterai di farti usare, la gente smetterà di usarti. Non puoi lamentarti che il melograno ti strozza. Sei stato tu a mangiarlo. Sono certo che se Ven avesse saputo chi eri, l’avresti ucciso, no?»
Mal non replicò. Forse perché su Venice quel bastardo aveva fatto centro.
Stette lì sulla sedia a pensare a quanto cazzo gli faceva male la gamba, il fianco, la spalla. A quanto non sapesse dove andare. Non era più Malekith per nessuno, oramai. Solo per Calat. Sarebbe stato meglio trovarsi un altro nome, una nuova maschera. Sarebbe stato meglio per tutti, per Calat e per lui. Meglio dimenticare Malekith. Un sorrisetto furbo gli affiorò sulle labbra, come se fosse la cosa più naturale del mondo, per cambiare faccia.
«Hai ragione. La tua stupida metafora mi ha fatto cambiare prospettiva.»
Prese il calice poggiato sul tavolo, il vino rosso ondeggiò attraverso il cristallo. Lo sollevò, più in un brindisi a sé stesso che all’uomo invisibile.
«Prova a considerarmi come il nuovo Fern.»
Il sorriso, in qualche modo, gli faceva male, ma continuò a tenerselo addosso.
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