La faccia dello stadnalv gli faceva venire la nausea. Niente ghigno sadico, niente occhietti crudeli. Nulla di quello che ci si aspetta da un torturatore. Era del solito grigio pietra dei suoi simili. Il lungo naso piatto gli dava un’aria indolente. Era un macellaio davanti a un pezzo di carne, un semplice lavoratore.
«Chi sei?» chiese con voce atona.
Malekith rimase zitto, le labbra serrate. Gli ricordava il mastro torturatore del palazzo. Erano identici, sul volto solo l’espressione, quasi rassegnata, di chi ha interiorizzato che il suo lavoro è infliggere dolore.
Non dirgli niente.
Così avrebbe detto suo padre. Così avrebbe fatto suo zio. Ma cosa c’era da guadagnarci, adesso, a fare l’eroe?
Si morse la lingua.
Un eroe. Come con Valadier, no? Guarda dove cazzo mi ha portato.
«Devi essere uno importante.» Lo stadnalv si passò la lingua sulle labbra, senza staccare gli occhi da lui. «Il mio amico Jules ha detto di non farti tanto male. Ha fatto sgomberare l’intero piano per potersene stare in pace. Quando avrà finito con lei, sarà qui.»
Gli sorrise.
«Ma ha detto che potevo scaldarti un pochino, solo un pochino.»
Lo stadnalv prese una lama sottile dal tavolino.
Non parlare.
«Allora, vediamo un po’. Chi sei?»
Chi sei?
La lama entrò e uscì dalla carne in un lampo, un dito sotto al capezzolo. Malekith digrignò i denti e gonfiò i muscoli delle braccia, tirando le cinghie che gli tenevano fermi i polsi. Quella di destra cigolò.
Chi sei?
«Questa è stata rapida. Posso essere molto più lento, lo sai? Allora, vuoi dirmi qualcosina?»
La piccola lama che aveva in mano luccicava di rosso. Malekith ansimava, il petto gli bruciava e sembrava congelarsi al tempo stesso. Un rivolo di sudore gli scese lungo la guancia.
Chi sei? Un codardo.
«Chi sei?»
Il tavolaccio di legno venne fatto ruotare con un colpo di pedale. Mal si trovò sdraiato a guardare la volta del soffitto. La lama entrò, ma non uscì. Prese a scavare attorno al capezzolo destro. Urlò.
«Ah, ce l’hai una voce allora. Forza, è facile, dimmi chi sei e la facciamo finita.»
Non sei un eroe. Non esistono gli eroi.
Scosse la testa, tremante, e serrò gli occhi.
Non esistono gli eroi.
La punta della lama si immerse nella carne, una lingua di fuoco gli attraversò il petto.
«Kell fottuto!»
Chi sei?
«Chi sei?» Al torturatore scappò un verso di sarcasmo. «Ti credi un eroe?»
Ti credi un eroe?
Aveva un pugno di tizzoni ardenti nel cervello, poteva sentirli sfrigolare dentro al cranio.
Tu sei solo un verme. Come Valadier.
Ruggì. La cinghia di destra cedette sotto lo sforzo e la sua mano scattò in alto. Agguantò la gola dello stadnalv e lo schiantò sul tavolo da tortura.
«Chi sono?» urlò.
Il petto gli andava a fuoco, ma sbatté ancora il cranio dell’altro sul tavolo.
«Chi sono?»
E ancora, ancora e ancora.
Il viscido delle cervella gli imbrattò le dita. Lo lasciò andare. Cercò a tentoni la lama, ancora piantata nel suo petto, e strappò.
«Kell fottuto!»
Era abbastanza affilata da tranciare le cinghie di pelle, ma era piccola. Il suo petto era viscido di sangue. Il dolore però non era nulla rispetto a quello che gli aveva fatto Vileen.
Chi sei?
Gli rimbombava nella mente una voce che era quella dello stadnalv e di suo padre assieme. Si sedette, liberò i piedi. Il pettorale destro grondava sangue, il suo capezzolo era scomparso, sostituito da un buco scarlatto. La porta si spalancò di colpo. Fern aveva ancora un po’ di sangue sulla barba. Sogghignò.
«Figlio di puttana, ti sei già liberato.»
Il suo occhio passò dal suo capezzolo mancante al cervello del torturatore, sparso tra il tavolo e il pavimento.
«Porca troia.»
***
Fern si fermò per chiamarlo, con un sibilo. «Cosa stai facendo?»
Mal continuò a sbirciare oltre la porta. «Devo trovare Dibe.»
«Mal…»
«L’ha presa lui. Non lo capisci?»
Sotto la fasciatura improvvisata, il petto gli bruciava. Passò alla porta dopo.
«Lei…»
È stata colpa tua. Codardo.
Attraversò di corsa il corridoio deserto. Non avevano incontrato nessuno, come aveva detto lo stadnalv. Sul piano c’erano solo loro. Una voce, oltre la porta alla sua sinistra. Mal strinse la lama del torturatore, ancora sporca di sangue. Tirò il chiavistello. Entrò in una piccola stanzetta scura. Su una delle pareti, una vetrata larga si affacciava su un’altra stanza. Dall’altra parte, Valadier stava in piedi a un capo di un tavolo, all’altro c’era Dibe. Aveva i polsi costretti dai ceppi, agganciati a un anello di ferro inchiodato al legno. Gli occhi del santo erano due fessure. Continuava a guardarla, come se non si fosse accorto dell’alfnar.
«Eccoti accontentato» sibilò Fern. «Li hai trovati. Lo avete conciato proprio bene.»
Valadier aveva la guancia coperta da una fasciatura, la tunica bianca era macchiata di sangue sotto l’ascella.
«Cosa…?»
Lo spadaccino accennò al vetro con il capo.
«Quello? Non ci può né vedere, né sentire. Li chiamano “specchi klyn”. Quando sei da una parte è trasparente. Dall’altra è come uno specchio.»
Il santo continuava a fissare Dibe. Malekith aveva una colata di piombo fuso sotto la pelle. Il petto pulsava, a ogni battito del cuore era come avere dei chiodi che scavavano nella pelle. Il volto di Valadier non sembrava nemmeno il suo.
«Sai, è strano.» La voce gli uscì carica di astio. «È una situazione strana.»
La donna non lo guardava. Teneva il capo chino, dalle labbra pendevano fili di sangue misto a saliva.
«Hai ucciso mio fratello.»
«Ho ucciso troppe persone, ma ho una buona memoria.»
«E osano chiamarti eroe» sputò.
Lo sguardo del santo divenne ancora più nero, lui storse la bocca. Si spostò i lunghi capelli dorati dalla fronte.
«Io sono un eroe.»
«Gli eroi non trucidano bambini.»
«Sì, invece. Semplicemente, non viene detto nelle favole. Gli eroi fanno guerre, nelle guerre muore gente. Anche bambini. Per non parlare degli stupri, delle torture.»
La fissava negli occhi e scandiva bene le parole, come volesse assicurarsi che capisse.
«Tu sei di Yeselin. Dimmi chi era tuo fratello.»
Le labbra di Dibe tremarono, i fili di sangue ondeggiarono.
«Era solo un bambino! La nostra casa era crollata…»
«Mi è successo più di una volta. Tu dov’eri?»
«Ti ho visto schiacciargli il cranio.»
Le lacrime iniziarono a scenderle sulle guance.
«Chiamava la mamma? Lo fanno molto spesso…»
Dibe sputò un grumo di sangue e saliva che si spiaccicò sul tavolo, a qualche centimetro da Valadier.
«Dimmi un po’.» Ringhiò, diede uno strattone alle manette. «Sei nato mostro, eh? Sei un cazzo di pervertito, come i malati dei sanatori? Ti piace far soffrire le persone?»
Valadier sorrise, tornando a essere il candido uomo che avevano santificato, il prescelto di Kell, il signore dei cieli, l’eroe.
«Sono nato per essere un eroe. Ed è così che sarò ricordato. Tiberias Dalhold era un cannibale, lo sapevi? No, certo che non lo sai. Mangiava così tanta carne umana che alla fine dei suoi giorni era impazzito. E il suo nome, oggi, è tra quelli dei santi nel Cantico della Pira. Migliaia e migliaia di persone lo invocano nelle loro preghiere.»
«Stai zitto.»
Valadier lasciò cadere il sorriso, gli occhi tornarono due fessure.
«Sai, per questo dicevo che è una situazione strana. Tu mi conosci.» Si alzò in piedi e passeggiò attorno al tavolo. «Pensavo che poter parlare a viso aperto con te sarebbe stato liberatorio, per questo ho mandato via tutti.»
Le appoggiò una mano sulla spalla, mettendosi dietro la sua sedia.
«Ma è solo fastidioso. Pensi di potermi giudicare perché ti ho ucciso il fratello, che presunzione. Nostro signore Kell mi ha fatto così per un motivo. Io voglio essere un eroe, e lo sarò.»
Rise.
«Sono talmente amato che, adesso che sono qui da solo con te, sai cosa pensano? “Se la starà scopando”? Assolutamente no. Pensano che io voglia convincerti senza dover ricorrere alla tortura perché sei una donna.»
Le passò le dita nella cresta di capelli, schiacciati sul cranio. «Sai, è questa la cosa che amo di più. La loro fiducia. Pensa, ho spezzato il collo ad alcune persone che mi adoravano. Si sono fidate di me anche quando gli ho stretto le braccia intorno alla gola, ci crederesti?»
Malekith fu scosso da un brivido.
Kell onnipotente, no…
La voce di Valadier si ridusse a un sussurro.
«È la cosa che mi piace di più.»
Le prese il mento con una mano, la strinse al petto e diede una torsione secca. Crack.
Il cranio di Dibe piombò sul tavolo con un tonfo netto, gli occhi già vitrei. Valadier fece una smorfia.
«Deludente. Me l’aspettavo.»
Malekith non aveva idea di come ci fosse finito, quello sgabello, tra le sue dita. Il suo corpo aveva fatto da solo. Lo tirò con tutta la forza che aveva e lo specchio klyn esplose in mille frammenti. Saltò dentro. Il fuoco nel petto non c’era più, i chiodi non c’erano più. C’era solo la lama, sottile e affilata, stretta nella sua mano.
Valadier strabuzzò gli occhi, Mal approfittò della sua sorpresa. Lo afferrò sotto l’ascella ferita e lo sbatté contro il muro. Il santo aprì la bocca, ma lui non sentì nessun urlo. C’era un ronzio che cancellava tutto, nelle sue orecchie.
Affondò al ventre, scavò una via d’uscita nel fianco. Viscido tra le dita. Puzza di merda e sangue, il calore umido sulle mani.
Un eroe.
Le budella di un eroe sgusciarono dalla sua carne e caddero sul pavimento. Mal non fermò la lama, continuò ad affondare, a tenerlo schiacciato contro il muro e colpire, colpire, colpire finché la lama non avesse passato da parte a parte quell’eroe. Non sentiva più la lama tra le dita, solo viscido e caldo.
La voce di Fern s’inserì in punta di piedi nel ronzio che lo assordava.
«Porca puttana, Mal.»
Si guardò la mano. Era rosso fino al gomito. Si accorse che Valadier era molle sotto la sua presa. Si accorse di quanto stava spingendo per tenerlo inchiodato alla parete. Aprì la mano e quello si afflosciò. Incrociò lo sguardo dello spadaccino. Uno sguardo così non gliel’aveva mai visto prima. Era fiero. Impressionato, anche.
«F-Fern…»
Le parole gli grattarono la gola. Lasciò cadere il coltello.
«Ragazzo, sono qui.»
«Voglio andare a casa, Fern. Voglio andare a casa.»
Lo spadaccino restò immobile, le labbra strette, come preso in contropiede.
«Ti prego. Voglio andare a casa.»
Le lacrime scavarono due solchi nello sporco e nel sangue che gli imbrattavano la faccia. Fern si avvicinò. Malekith si chinò per stringersi al suo petto e iniziò a singhiozzare, lo strinse più forte che poteva, perché non lo lasciasse.
«P-portami a casa, Fern. V-voglio andare a casa.»
Lo spadaccino gli accarezzò i capelli con dita rigide, goffe.
«Andiamo via e basta, Mal. Bazachel ci aspetta.»
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