Un soldato, con l’azza appoggiata sulla spalla, lanciò un’occhiataccia a Malekith, ma fece un passo di lato. Portava una casacca con gli stessi colori dei suoi quattro compagni, nero e verde acqua, sbiadita dal sudore. Fern sputò per terra e continuò a camminare lungo la strada.

«Mangiatori di Glifi.»

«Un’altra compagnia mercenaria?» Mal appoggiò la mano sul pomo della sciabola. «Siamo già a tre. Forge straripa di mercenari.»

«Contando i Figli delle Lame e la Compagnia di Hawken saremo a cinque. Il terrore dei quartieri grigi aumenta sempre di più, ragazzo mio. Assieme a quello degli Spettri di Pietra.»

«Non sapevo che i Figli usassero i Predisposti.»

L’alfnar sbatté la spalla contro un passante e per poco non lo mandò gambe all’aria.

Un anno fa probabilmente mi sarei fatto male io.

Fern si spostò di lato per far passare l’ennesima processione di zeloti di Kell.

«Chi non usa i Predisposti, al giorno d’oggi?»

Le tuniche rosso scuro, bordate di fili color rame, ondeggiavano a ogni passo, a ritmo con gli incensieri che sbuffavano fumo e scintille.

«Sia benedetto il Grande Dragone! Sia lodato il signore Iddio, Kell!»

Mal si fece il segno del drago sul petto, una linea orizzontale per le ali, una curva per la coda. Lo spadaccino gli lanciò un’occhiata alla cinta.

«Se vuoi un consiglio, tieni la mano sul pugnale, non sulla spada. Ci vuole troppo tempo per tirarla fuori qui.»

«Pensi che avremo problemi?»

«Non si è mai troppo prudenti.»

Evitarono la folla che seguiva la processione infilandosi in un vicolo stretto tra due alti muri di pietra scura. Sin da bambino, Malekith non aveva mai capito come avessero fatto i giganti che avevano costruito Forge a passare per i dedali di vicoletti che caratterizzavano la città.

Forse è per quello che l’hanno abbandonata.

«Non avrei mai pensato che la città sarebbe cambiata così tanto. Ora che il consiglio cittadino ha arruolato addirittura cinque compagnie come guardie cittadine…»

«Cambiata? Forge è la città che non cambia mai.»

«Guardati attorno.» Mal indicò con la testa la piazza in cui erano appena sbucati. «Ci sono quasi più soldati che civili. Sembra di essere sotto assedio.»

«Ah, ragazzo mio. Avrai visto la città da piccolo, sbaglio?» L’uomo lo condusse oltre il piazzale e poi giù per un altro stretto viottolo che scendeva ripido.

«Sì.»

«E avrai letto nella biblioteca di casa tua la storia della città di pietra, no?»

«Arrivi al punto o no?»

L’alfnar si guardò alle spalle. La strada era deserta. Le case erano così alte che il pallido sole che ogni tanto sbucava tra le nubi non riusciva a raggiungerli.

«Saprai che questi vecchi sassi non si possono distruggere, no?» Fern batté la nocca sul muro alla sua sinistra, producendo un rumore sordo. «Per questo la città non cambia mai. E questo si riflette su chi ci abita.»

«In che senso?»

«Non è la prima volta che i quartieri grigi avanzano così, e non sarà neanche l’ultima. Valadier non cambierà la situazione.»

«Che situazione? I quartieri grigi erano stati purificati.»

Mal scrocchiò il collo. Sentiva l’impulso di voltarsi e andarsene via, tornare in quella foresta di merda e rimettersi a cercare Shar, e non pensare più a niente che gli ricordasse il passato.

Codardo.

Neanche un istante dopo e il volto di Valadier gli era già ricomparso in testa. Gli si strinse il cuore, come preso nel mezzo di una tagliola. Fern sputò.

«L’ultima volta che li hanno purificati, Calat non era ancora pazzo.»

Svoltarono in una strada più larga, ma sempre deserta e all’ombra. Mal non riusciva a smettere di accarezzare il pugnale.

Ucciderò Valadier con questo?

Ci chiuse le dita sopra e strinse con tutta la sua forza l’impugnatura zigrinata.

«Perché Valadier è qui?»

«Non è solo lui. C’è un’armata di zeloti pronta a scattare a un suo cenno. Potrebbe stare meditando di prendersi Forge.»

«Prenderla? Ma lui…»

«Lui non lo farebbe, lo so.» Replicò secco lo spadaccino. «Sono settimane che rispondi così. Credi che me l’aspettassi, io, che San Valadier era uno stronzo traditore?»

Sbuffò, ma non smise di camminare.

«Io ci sono nato, qui, e anche cresciuto. La città non cambia, e non cambiano neanche le persone.»

Mal deglutì. Parlava davvero come suo padre. Giunsero davanti a una porticina bassa. Fern bussò tre volte, due ancora e poi altre tre. Un attimo di silenzio, e una chiave girò nella toppa. L’uscio si aprì. Dall’altra parte stava un tizio col doppio mento coperto di barba. Borbottò qualcosa, fece un cenno di saluto allo spadaccino e tornò dietro al suo bancone.

«Siamo arrivati. Io vado a recuperare una persona, tu entra e fatti un goccio. Hai delle vecchie conoscenze che ti aspettano.»

«Vecchie conoscenze?»

Fern rispose con un’alzata di spalle e riprese a camminare per la strada deserta.

«Aspettatemi.»

La locanda era meno peggio di quanto avesse pensato. Il pavimento di assi era coperto da vecchi tappeti sdruciti, l’aria era densa di fumo e di polvere, come se nessuno avesse aperto le finestre negli ultimi due anni. Una mano guantata lo salutò dal fondo di un lungo tavolo deserto come la strada di prima. Cale si sforzò di sorridergli.

«Ciao, Mal.»

«Cale.» L’alfnar andò verso di lui e gli strinse la mano. «È bello rivederti. Sei qui solo?»

«No che non lo è.»

Mal si voltò e si trovò di fronte Berry. La sua mano destra, tutta d’argento, luccicava. Una ridda di calore gli si riversò nel petto. Abbracciò il mezzo-morag e lo strinse forte a sé.

«Ehi, piano.» L’altro ridacchiò. «Non sono fatto di vetro, ma tu sei diventato grosso come un toro.»

«Oh, scusa.»

Si sedette con loro e il mezzo-morag ordinò da bere con uno svolazzo della mano in direzione del locandiere.

«Bella, vero?»

«Com’è?»

«Come fosse vera, lo dicevo prima a Cale.»

Il cassadoriano annuì piano. Mal si accorse di avere la bocca secca e le labbra ancor più aride. Se le leccò e cercò le parole giuste.

«Voi… siete qui anche voi per…»

«Sì.» Cale rispose secco e abbassò il capo.

Mal guardò Berry. Anche sul suo volto c’era tensione, ma il loro amico pareva sul punto di scoppiare a piangere. Guardava il tavolo davanti a sé, gli occhi azzurri arrossati e gonfi.

«Berry.» La sua voce pareva uscire da una tomba. «Puoi… puoi andare a prendere tu da bere? Horace è troppo lento.»

L’altro annuì e si alzò.

«Sì. Vado.»

Restò solo il silenzio, un silenzio teso come la corda di un arco quando la freccia è incoccata. Il giovane gli prese l’avambraccio con la mano.

«T-tu… noi non possiamo farlo.»

«Lo so.»

Cale inspirò, e Mal temette che si sarebbe messo a urlare. Invece lo fissò dritto negli occhi, con lo sguardo che aveva anche un anno e mezzo prima, nella fortezza. Cercava speranza. Una speranza che lui non poteva dargli. L’alfnar dovette scollare la lingua dal palato, da tanto aveva la bocca impastata.

«Tu perché sei qui, Cale?»

«Valadier sa una cosa. Una cosa su di me, che io…» Serrò i denti come se gli avessero dato una coltellata e strinse più forte l’avambraccio di Malekith. «Lui non lo dirà a mio padre, vero?»

L’alfnar gli sfiorò le dita.

«Dirgli cosa?»

L’altro drizzò la schiena e fece segno di no col capo, i capelli ondeggiarono.

«N-non posso dirtelo, Mal. Non posso dirtelo.»

«Va tutto bene.»

Berry ritornò con tre birre e si sedette, allungò un boccale a Cale e uno a Malekith.

«Niente di meglio che una birra in una giornata così.»

L’alfnar scrutò nella schiuma, quasi potesse esserci una risposta alle domande che aveva nel cervello. Vide Valadier mettere i ceppi al Cremisi e farlo portare via. Il trono ora era libero, lo aspettava.

Bravo. Fai conquistare il tuo trono a qualcun altro, codardo.

Si massaggiò la radice del naso con le dita e scolò un lungo sorso di birra. Chi poteva essere tanto codardo da non fidarsi nemmeno di San Valadier?

Tu, a quanto pare.