Cale entrò nella sua camera in silenzio. Si chiuse la porta alle spalle e sospirò piano, come se si stesse preparando a dire qualcosa di grosso.
«Perché… perché prima ti sei messo in mezzo?»
Malekith, seduto sulla sua branda con le ginocchia al petto e la schiena appoggiata al muro, lo guardò dritto negli occhi.
«Avevi paura.»
Cale deglutì.
«Grazie.»
«È così importante, quella spada?»
Il cassadoriano teneva sempre la mano sull’elsa, anche in quel momento. Cosa temeva, che prendesse vita e scappasse via?
«Sì. Era di mio padre.»
Mal non riuscì a impedire che un sorriso gli spuntasse sulle labbra. Fece cenno all’altro di sedersi, e quello prese lo sgabello che stava accanto alla porta.
«Hai fatto progressi da quando ci siamo lasciati? Con tuo padre, intendo.» Il suo sorriso divenne amaro. «Non l’hai ancora salvato?»
Cale tenne gli occhi sul pavimento, forse per evitare il suo sguardo. Scosse la testa.
«No. È per questo che devo… fermare Valadier. L-lui potrebbe andare da mio padre.»
Mal sollevò un sopracciglio, stupito.
«Si conoscono?»
«Sono amici. Mio padre è Samwhaine Vitby.»
Lo diceva così, a mezza voce, come se fosse una cosa normale.
«Il conte di Krissvale? Quel Samwhaine Vitby?»
Cale drizzò la testa, in un moto di orgoglio.
«Lui, e nessun’altro.»
«Ma allora, se Valadier—»
«Non è così semplice, Malekith.»
Il cassadoriano ringhiò. Serrò i denti, gli occhi arrossati. Le vene sul collo guizzavano, era come se facesse fatica a dire altro.
«Pensano che abbia cercato di ucciderlo. Mio padre. Che io sia un assassino.»
Mal si alzò e si avvicinò piano a lui. Le assi del pavimento cigolarono appena. Cale non abbassò lo sguardo stavolta.
«Non ti conosco da tanto, amico.» L’alfnar gli diede una pacca sulla spalla. «Ma non hai la faccia da assassino.»
Il cassadoriano non rise.
«È successo qualcosa a mio padre. Qualcosa nella testa. Era diventato violento.»
«So che era un valoroso guerriero.»
Che, pensandoci, poteva essere sinonimo di sanguinario.
«Lo era. Ma dall’ultima guerra è successo qualcosa. Erano anni che non impugnava la spada. Poi, l’anno del mio diciottesimo compleanno, andò a caccia con mio fratello Taron e… e tornò senza di lui.»
Mal rimase zitto ad ascoltare, le mandibole serrate.
«Lui… lui disse che l’aveva perso di vista.» La voce di Cale si incrinò. «Lo trovammo, dopo, in fondo a una scarpata. Aveva il collo spezzato, ritorto su sé stesso.»
«E non è stato un incidente?»
«No. Non c’era sangue attorno a lui. Era morto prima di cadere.»
L’alfnar rabbrividì.
«Tuo padre…»
«Mio padre è posseduto da qualcosa. Qualcosa che gli è entrato nella mente. Non c’è altra spiegazione.»
«Per questo cercavi lo Scavamente, alla fortezza.»
«Sì. Io non posso rischiare di affrontarlo adesso. Abbiamo duellato quando ha deciso di prendere con la forza la mia promessa sposa. Sono fuggito con questa spada. Ho abbandonato Talia…»
«Era la tua donna?»
Cale annuì.
«Ci saremmo sposati in primavera» rispose con un filo di voce.
Mal si inginocchiò davanti a lui e gli strinse le braccia.
«Cale…»
«Mio padre ha bisogno di me. Non posso abbandonarlo. Non aggiungerò alla nomea di assassino quella di codardo.»
L’alfnar lo lasciò andare. Era come se l’avessero pugnalato al petto, una fitta di dolore gli toglieva il fiato. Cercò parole per rispondere, ma erano tutte vuote.
Codardo! Lui suo padre lo vuole salvare, la tua scusa per uccidere Valadier qual è?
La sensazione del pugnale tra le dita, lui che correva contro Valadier. Ma era solo un bambino, e lui il suo eroe. Il cassadoriano si alzò dallo sgabello.
«Scusami, Malekith, non sarei dovuto… s-sono problemi che devo risolvere io. Tu hai già fatto tanto per me. Era solo… avevo bisogno di un amico.»
Mal annuì, ma le parole di Cale entrarono da un orecchio e uscirono dall’altro. Non aveva bisogno di un amico, lui. Aveva bisogno di qualcuno che gli facesse odiare Valadier, o non avrebbe mai calato il pugnale.
***
Dibe si guardò attorno, imbronciata. Il vicolo sul retro della locanda era deserto.
«Che cazzo facciamo qui?»
«Ti devo parlare,» sussurrò Mal.
«L’ho capito.»
Il tono ostile della donna gli fece prudere le mani, ma era il momento sbagliato per scaldarsi.
«Voglio sapere com’è morto tuo fratello.»
Gli occhi di Dibe divennero due fessure.
«Che cazzo di gioco…»
«Non è un gioco, dannazione!» Lui serrò i pugni. «Io voglio sapere se sto… se sto facendo la cosa giusta.»
Lei rimase in silenzio per qualche attimo. Si arrotolò la manica della camicia fino al gomito e mostrò un marchio a forma di croce sull’avambraccio.
«Uccidere un uomo non è mai giusto.»
«Ah, no?»
Fu come se non l’avesse nemmeno sentito.
«Da bambina, dopo la guerra, avevo due scelte. Potevo andare a intrecciare canestri, con gli altri orfani, o potevo scappare. Scelsi la seconda, ma sapevo dove andavo.» Batté il dito accanto al marchio. «Alle fosse di Yeselin. Sai cosa sono?»
«Lo so.»
Mal aveva la bocca secca. Fece un passo indietro. Con una persona del genere, Fern avrebbe consigliato di sicuro un po’ di distanza.
«Sei una gladiatrice.»
«Sì. E lo sono diventata perché era l’unico cazzo di modo per imparare a combattere. E uccidere.»
«E ora sei qui.»
«E ora sono qui per uccidere Valadier. Quindi sì, per me stai facendo la cosa giusta. Non è un uomo, quello.»
Non è un uomo. Le ha ucciso il fratello.
Cazzate. Poteva avere trent’anni, suo fratello. C’era una maledetta guerra, e le persone di norma ci muoiono.
«Quanti anni aveva tuo fratello?»
«Cinque.»
Era un bambino.
Era la guerra. Mal non era mai stato così stupido da pensare che andasse bene per tutti, nemmeno quando si allenava con papà. Le labbra di Dibe tremarono.
«Ci era crollata la casa in testa. Io avevo una parete schiacciata addosso, non riuscivo a respirare. Mio fratello strisciava fuori dalle macerie, nella polvere.»
Mal aprì la bocca per interromperla, ma un groppo alla gola gli impedì di parlare. Gli occhi di Dibe erano diventati lucidi, nel buio del vicolo.
«La sua voce… non so cos’ha detto. Non me lo ricordo, ma mi ricordo la voce. Gli ha dato un calcio, si è chinato su di lui a sussurrare qualcosa. È lì che l’ho visto.»
Deglutì e scoprì i denti, come per ringhiare, ma le lacrime presero a scenderle lungo le guance piene di graffi.
«Gli ha pestato il piede sulla testa. S-si è appoggiato e ha spinto, ha spinto finché—»
Un singhiozzo spezzò la sua frase. Mal fece un passo verso di lei.
«Mi dispiace, io…»
Le mani tozze di Dibe lo afferrarono per il bavero e lo strattonarono giù, all’altezza del suo viso. Tra le lacrime, gli occhi neri della donna erano puro fuoco.
«Te lo vedo scritto in faccia che non lo vuoi uccidere» sibilò. «Ma fatti passare i dubbi in fretta, alfnar.»
Sollevò il dorso della destra davanti a lui e gli mostrò bene le cicatrici della Predisposizione.
«Mi sono fatta fare cose anche peggiori di questa per arrivare a uccidere quel bastardo» sibilò.
L’odio nella sua voce era palpabile.
«Se ti farai venire dei dubbi quando lo avremo davanti, ucciderò anche te.»
***
Malekith scrocchiò il collo. Il sole sarebbe sorto di lì a poco, la stanza di Berry aveva una finestra su cui l’alfnar stava appoggiato, guardando la strada sottostante.
«Io non capisco più niente, Berry. Ho il cervello che va a fuoco. Sono venuto da te per questo.»
«Notte passata in bianco?»
«Esatto.»
«Diciamo che avevi bisogno di un amico, allora.»
Il mezzo-morag era in maniche di camicia, chiusa fino al collo, sul letto. La sua mano destra, argentata, si fondeva alla perfezione con la carne dell’avambraccio, come se fosse nato con una mano di metallo.
«Avevo bisogno di un amico.»
«Per quanto possa aiutarti io su questioni d’eroismo.» Berry sorrise. «Non ne so niente, di eroi.»
«Beh, hai una metà di sangue morag, no?» Mal allargò le braccia, come a voler sottolineare l’ovvio. «Tuo padre, o tua madre, devono essere nati nell’Orda. Veterani, per giunta, se hanno avuto il fedecommesso, mi sbaglio? Devono essere veri eroi.»
Le sue parole cancellarono il sorriso dal volto dell’altro. Il collo di Berry ebbe un fremito, e il cuore dell’alfnar si congelò.
«No. Non c’è persona meno eroica di mia madre su questa terra, Malekith.»
Il disprezzo nel suo tono fece indietreggiare Mal di un passo. Berry cercò di slacciare la camicia, ma si fermò, la mano d’argento sospesa davanti al petto.
«Berry… io credevo…»
L’altro scosse il capo. Alzò le spalle, i suoi occhi dorati, così simili a quelli di Shar, fissarono l’alfnar.
«Immagino che raramente gli eroi siano come ce li aspettiamo.»
Cos’avrebbe fatto suo zio? Il Malekith più amato di tutta la corte avrebbe raggiunto Valadier e gli avrebbe parlato a cuore aperto. Da vero eroe. Da vero Malekith, avrebbe detto suo padre. Tra eroi, forse ci si intende.
Ma tu non sei un eroe. Non sei il Malekith giusto. Chi sei?
Berry sospirò e tornò a sorridere, ma con meno convinzione.
«E con Shar come va? Non mi hai detto nulla.» Si sforzò di sorridere di più. «È tutto a posto?»
Mal annuì.
«Tutto a posto.»
Non era vero, ma quella bugia gli avrebbe evitato una discussione inutile. In un certo senso, era quasi meglio stare lì a Forge che con Shar. Non avere qualcuno che piangeva sul suo petto dopo avergli quasi staccato la testa dava a Malekith una prevedibile sensazione di sicurezza.
Dovrai tornare da lei.
Lei. Quella lei che gli dava l’impressione di non riuscire a fermarsi, ogni tanto. Anche volendo, lui non avrebbe potuto farlo. Il sorriso di Berry si affievolì un istante, ma un istante solo.
«Bene, bene. Sono felice per voi.»
«Anche io, amico.»
Un vero eroe non si misura solo in battaglia, avrebbe detto suo padre. Sedicesima massima dello Specchio di suo nonno Arnevor. Storse la bocca. Avrebbe dovuto saper gestire anche lei se doveva tornare a casa. Non avrebbe dovuto lasciarla sola, non avrebbe dovuto fare un sacco di cose. Avrebbe anche dovuto essere un eroe, se era per quello, ma non lo era.
Scrivi un commento