Mal aveva la bocca impastata. Era seduto su una sedia scomoda, le mani bloccate allo schienale da una corda ruvida. Sbatté le palpebre per mettere a fuoco ma la stanza attorno a lui continuava a rimanere solo un insieme di macchie. Si concentrò sulla più chiara. La finestrella in alto, con le sbarre di metallo a croce, divenne più definita con qualche battito delle ciglia. Le pareti spoglie erano troppo pulite per essere quelle di una prigione. Ci fu come uno schiocco di dita, e qualcosa sfilò le corde dai suoi polsi. La fune cadde a terra con un sibilo. Davanti a lui c’era un tavolo di legno. Seduto dall’altra parte, un alfnar, il cui vestito era una macchia rossa. Batté ancora gli occhi, e la ricca veste di seta assunse una sfumatura più netta, più tendente al cremisi.
«Cosa…?» biascicò.
Dovevano averlo tenuto sotto vin del sonno per parecchio. L’alfnar dall’altra parte si sporse in avanti, appoggiò il gomito sul tavolo e si accarezzò il mento, sorridendo. Un sorriso che avrebbe fatto invidia a quello di una iena. I suoi occhi scuri scintillarono di una luce rossa.
«Ben svegliato.»
Le viscere di Malekith divennero di ghiaccio.
Mi ha trovato.
Il Cremisi si schiarì la voce con un colpo di tosse.
«Sono Re Dargar Kitessar primo, sovrano di Espya.» Ridacchiò. «Ma, ovviamente, tu questo lo sai, no?»
Lui non riuscì a impedire alla bocca di aprirsi e agli occhi di fissarlo, con espressione ebete. Lo stregone aveva preso la pelle di suo cugino Dargar. La sua faccia era la stessa, le sottili rughe attorno al naso e agli occhi non avevano intaccato la sua aria da sbruffone. Ma il sorriso che ci metteva il Cremisi gli faceva salire i brividi dalla schiena alla nuca.
«Era tanto tempo che ti cercavo, lo sai?»
Era finita.
«Lo so…»
Mal chinò un poco il capo, i capelli bianchi a penzoloni davanti alla fronte.
«Oh, e infatti hai fatto dannare i miei uomini. Raggiungerti è stato un incubo, ma… ne è valsa la pena, dico bene?»
Come gongolava, ora che lo aveva tra le mani. Ecco perché non era legato, non se ne era nemmeno preso la briga. Si doveva sentire come il gatto con il topo. Mal deglutì.
«E adesso?»
Adesso uno schiocco di dita e le mie interiora tingeranno le pareti. No, peggio. Mi vorrà torturare, è sicuro.
Il Cremisi schioccò le dita. Non successe niente.
«E adesso, eh? Mi piaci, vai dritto al punto. Adesso parliamo di affari.»
Il prigioniero batté ancora le palpebre. Aveva capito bene, o era ancora l’effetto del vin del sonno che gli annebbiava il cervello?
Il Cremisi scosse il capo. Si alzò e passeggiò attorno al tavolo.
«Ti hanno mangiato la lingua, eh? D’accordo, ecco l’imbeccata: che mi dici del Pozzo di Tesslic?»
«Che lo conosco. Come tutti.»
Lo stregone si chinò verso di lui. Il suo ghigno si fece minaccioso, i denti snudati simili a zanne.
«Attento. Non mi piacciono gli sbruffoni, nemmeno quelli con la tua reputazione. Parli un buon Espyan, sai? Dove sei nato?»
Dove sono nato? Cosa cazzo stai dicendo, fottuto idiota, non mi hai…
Sbarrò gli occhi.
Oh, cazzo.
Non lo aveva riconosciuto. Il suo petto si svuotò, come se sia l’aria che i polmoni, il cuore e ogni altra cosa fossero scomparsi.
«Qui.»
«Qui?» Il volto di suo cugino sollevò un sopracciglio. «Nei bassifondi della città?»
«Qualcosa del genere.»
«Beh, che coincidenza. Bentornato all’ovile, Manonera.»
«Grazie.»
Non controllava più il suo corpo. La bocca si muoveva da sola, parlava mentre lui rimaneva muto a osservare quella scena surreale. Il Cremisi ridusse il suo sorriso, l’espressione si fece seria.
«Basta chiacchiere. Io voglio avere l’accesso al Pozzo prima che Calat ci metta le mani. Siete stati parecchio vicini, ho sentito, almeno per un po’. Hai la fama di essere uno dei più esperti con i suoi ipogei.»
Una parte di lui sapeva benissimo cosa voleva sentire lo stregone. Per fortuna, o forse purtroppo, era la parte che comandava la bocca.
«Posso aprire il Pozzo per te.»
Nessuna inflessione, tono piatto e sicuro. Malekith rabbrividì nel suo stesso corpo, come volesse strisciarne fuori. Le parole erano quelle di un altro, non c’era più lui, lì dentro. Il Cremisi si fregò le mani.
«Oh, lieto di sentirlo. Ho idea che mi servirai bene, e io sono molto generoso con chi mi serve bene.»
«Naturalmente» fece la voce di Mal, «mi servirà una squadra di cui dovrò selezionare i membri. E del tempo per studiare le carte, e per riprendermi.»
«Oh, immagino sarai ancora stordito. Volevo essere sicuro di tenerti, una volta preso, capisci?» Il Cremisi sfoderò un sorriso di scherno. «Nessun rancore?»
Guardami! Sono io, sono Malekith!
La sua voce non arrivò alle orecchie dello stregone. Il suo corpo non si muoveva, non usciva un suono dalle sue labbra.
Guardami! Sono io!
«Nessun rancore, maestà.»
Il Cremisi batté forte le mani. Alle spalle di Mal, dei cardini cigolarono appena e un battente di legno grattò sul pavimento. Due uomini gli si affiancarono, con le alabarde in pugno e sulla piastra pettorale l’aquila nera in campo porpora dei Kitessar di Espya.
«Scortate il signor Manonera negli alloggi che abbiamo fatto preparare. È mio desiderio che lo lasciate riposare in assoluta tranquillità.»
I due alfnar chinarono il capo.
«Sì, sire.»
Quello alla sua destra lo prese sotto il braccio col guanto corazzato e lo aiutò a uscire, a piccoli passi. Un piede dopo l’altro, Mal riprese a sentire il proprio corpo. Era al tempo stesso pesante come il piombo e vuoto come un vaso. Bastava un attimo, e se fosse caduto era certo che si sarebbe sbriciolato.
Sono io! Guardami!
Si voltò, la voce che gli risaliva la gola. Ma la stanza dove si era svegliato col Cremisi, attraverso la porta, era buia. Tante figure ci si affollavano dentro, scure e traslucide. Chi con la gola tagliata, chi con il petto che sanguinava, chi con il volto esploso per metà, chi con solo uno sguardo severo da rivolgergli. Continuò a camminare, lasciandosi alle spalle quella stanza piena di ombre.
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