È davvero possibile che mi sia inventato tutto?
Malekith smise di correre. Rimase fermo ad ascoltare il suo respiro pesante nel silenzio irreale del corridoio polveroso. Era un’ala vecchia del palazzo, il pavimento non aveva più il tappeto rosso che ricordava.
Io me lo ricordo! Me lo ricordo, perché non c’è?
La luna piena filtrava dagli oculi in cima ai finestroni che scandivano il corridoio, tutti sbarrati da assi. Dovevano essere vent’anni che nessuno passava più di lì. Sfiorò un bozzo nell’intonaco con le dita. Lì aveva dato una testata scappando da Alarie, e i servitori l’avevano dovuto sistemare, ma c’era rimasto troppo intonaco nuovo. Giocavano a nascondino, e lei l’aveva trovato, come faceva sempre. Si vide entrare da uno dei finestroni, che nei giorni d‘estate rimanevano aperti, e sfrecciare su un tappeto rosso che non esisteva più. Ma era un fantasma, un’ombra, nemmeno un ricordo, e quel bozzo sul muro poteva essere per qualunque altra cosa. Cos’era successo poi? Non gli rimaneva nulla di quel posto, solo l’immagine nella mente di raggi di sole da fuori e di quel maledetto tappeto rosso che non c’era, non c’era e forse non c’era mai stato.
Questa è la mia vita! Dov’è finito tutto?
Si prese il volto tra le mani, gli occhi che bruciavano.
Chi sono io?
C’era una porta a metà del corridoio. Lo sapeva anche senza togliere le mani, se lo ricordava. Ma quella non era davvero casa sua, la porta poteva benissimo…
Sbirciò. La porta c’era e la conosceva. Era quella di camera sua, dopotutto. Ogni notte, prima di andare a dormire, sfiorava le due lance, una su ogni battente, scolpite nello stucco e attaccate alla porta. Le si avvicinò piano. Passò le dita sul suo profilo e le fece scivolare verso il centro. Due lunghe linee, una al centro di ciascun battente, lavorate in stucco. Le dita salirono fino a incontrare la punta aguzza di una lancia.
La lancia d’argento di Espya. La camera del principe designato.
Lo strato di colore sopra il legno si sbriciolava al contatto con i suoi polpastrelli, gli lasciava sulle dita solo polvere. La mano non voleva smettere di tremare. La strinse sulla maniglia con tutta la forza che aveva. Qualcosa nell’aria. Passi, forse, felpati. Un cigolio impercettibile, l’eco di uno scricchiolio. Quasi un gemito.
Chi sei?
Malekith aprì la porta ed entrò. Annaspò nel buio, la porta gli si chiuse alle spalle. L’aria sapeva di polvere, gli grattò contro la gola. Andò avanti, guidato solo dalla sbiadita memoria di quel posto.
Qui dovrebbe esserci…
Il suo il ginocchio pestò contro del legno, una scarica di dolore gli attraversò l’osso. Le sue mani si piantarono sul profilo dritto di qualcosa di pesante. Vi fece scorrere le dita, lungo il ripiano colmo di polvere, sui fianchi torniti, sui pomelli. La mano destra incontrò qualcosa di freddo. Strofinò il pollice sul profilo liscio, fino a trovare la sommità. Un anello di ferro. Trovò lo sportellino a tentoni, toccando il vetro. La cerniera guaì un sottile gnik. Qualcosa di morbido, lo incise con l’unghia. Cera. Tirò fuori la candela, con la sinistra tirò indietro uno dei pomelli.
Dov’era, dov’era? Dove cazzo li metteva?
Legno che sfrega su altro legno. Il cassetto gli si appoggiò alla coscia. Tastò all’interno, ma niente. Secondo cassetto. Gli spigoli netti della pietra focaia.
Sì!
La scatolina di legno accanto alla pietra. Pose tutto sul ripiano, il coperchio cadde sul legno con un secco tlack. Acciarino e miccia, il grattare acuto del metallo sulla pietra. Una scintilla. Due. Una spruzzata di lucciole arancioni attecchì sul cotone. Ci immerse il mozzicone di candela e soffiò piano. Contò i secondi con i battiti del cuore, alternati ai respiri. La luce si fece un poco più intensa, la fiammella gli illuminò il viso e le dita. Inserì quella tenue lucina nella lanterna e chiuse lo sportellino. Il bagliore della fiamma riverberò attraverso il vetro, sulle pareti della camera. Mal fece un giro su sé stesso. Era ancora tutto lì. I trofei della caccia impagliati ai muri, i suoi regali di compleanno, i blasoni vinti alle giostre, la spada, la prima spada che gli aveva regalato suo padre. Si sentì piccolo come nel momento in cui l’aveva brandita per la prima volta. Tutti i ricordi del principe che era stato gli vorticarono dentro. Si era arrampicato sullo scranno per prenderla, dopo che i servi l’avevano appesa al muro. Il suo peso gli si impresse di nuovo nel braccio. Una lama troppo pesante per un ragazzino. L’aveva sollevata in alto verso il soffitto, tenendola con ambo le mani, e aveva sorriso.
Io sarò un eroe. Io sono il Principe Malekith!
Si ritrovò a guardare in alto. Era solo la vecchia lama di una spada mai sfoderata.
Io sono il Principe Malekith.
Si fece di piombo, un macigno. Un brivido gli scosse il braccio fin dentro alle ossa. Non riusciva a lasciarla andare, quella spada. Sotto i piedi il tappeto si fece melma, il pavimento una voragine. La vertigine gli assalì lo stomaco.
Non voglio!
Abbassò l’arma e la lasciò cadere a terra. Indietreggiò, sudore freddo che gli imperlava la fronte.
Perché sono venuto qui?
Strinse il pugno.
Non è cambiato niente.
Il Principe Malekith non sarebbe mai riuscito a fare quello che doveva. Uno scricchiolio. Non ebbe il tempo di respirare. Qualcuno gli strattonò indietro i capelli, il cranio gli bruciò. Perse l’equilibrio e barcollò indietro, il tocco freddo dell’acciaio gli mandò un brivido attraverso la gola. Una voce femminile, ma roca, gli graffiò i timpani.
«Cosa ci fai nella stanza di mio cugino?»
Il cuore smise di battergli. In qualche modo, sapeva già come risponderle.
«Voglio uccidere il Cremisi.»
Avvertì la sorpresa nel suo respiro. La presa sui capelli si allentò, ma la lama non si mosse.
«Tu cosa?»
«Voglio uccidere il re. Lui non è chi—»
«Sì, lo so.» Lo lasciò andare. «Chi sei tu?»
Mal si appoggiò al mobile su cui aveva sbattuto il ginocchio e la guardò. Il fiato gli congelò nei polmoni.
Oh, santo Kell…
Vent’anni prima, gli occhi di Alarie erano grigi e gonfi di lacrime, così simili a quelli di Stan. Mal non se li era mai schiodati dalla mente. Si riaffacciarono dai suoi ricordi per farlo tornare, per un attimo, al giorno in cui era scappato. Ora, al posto di quelli veri, c’erano due rubini rossi. Attorno, solo pelle coperta di cicatrici e placche di metallo nero che scavavano nelle orbite occupate dalle pietre.
Gli occhi di Sevnika!
Mal si schiacciò contro il baldacchino. Restò a bocca spalancata, incapace di parlare, a fissare il volto deturpato dell’alfnare. Alarie fece un passo avanti.
«Rispondimi. Chi sei?»
«T-tu… cosa ti hanno fatto?»
Si ritrovò il suo pugnale contro il collo, di nuovo.
«Non lo chiederò un’altra volta.»
«Sono…» si fermò per un istante. Un lungo, infinito istante.
Un bambino con una spada troppo pesante.
«Mi chiamano Manonera.»
Alarie fece una smorfia.
«Un tono un po’ troppo da spaccone per un ladro che si è fatto catturare e ha un coltello puntato alla gola.»
«Non è ancora nella gola, o sbaglio?»
Fece per sfoderare il suo solito sorrisetto, pur sapendo che, con quegli occhi, lei non poteva vedere il suo viso, ma gli morì sulle labbra. Ricacciò indietro tutto, e tornò a indossare la maschera di Manonera.
«Mi sono fatto catturare, comunque.»
«Come sai che il re è il Cremisi? Se fossi stata una guardia…»
«Ma non lo sei. Non corre sicuramente buon sangue tra te e quel bastardo, no? Ha ucciso anche il tuo, di padre.»
Gli occhi di rubino di sua cugina rimasero piantati su di lui, come se gli stessero scandagliando i pensieri.
«Sai troppe cose per essere un tombarolo.»
«Studia il nemico. Ho un vecchio conto in sospeso con lo stregone, ti ho detto.»
«Bella scusa del cazzo. Pensavo che uno come te avesse escogitato qualcosa di meglio.» Un ghigno feroce le balenò sulle labbra.
Scoprì i canini, come a volerlo azzannare.
«Mi servono prove.»
«Non le ho. Ammazzami adesso o lasciami lavorare.»
Pregò che non si accorgesse che le mani gli tremavano. Alarie rimase in silenzio, immobile. Anche senza occhi naturali era facile intuire i suoi pensieri. Calcolava il rischio, quanto potesse valere la pena fidarsi.
Gli occhi di Sevnika… oh, Alarie, cosa ti hanno fatto?
Prese lui l’iniziativa, per non darle il tempo di decidere che era più sicuro ucciderlo.
«Era dai tempi di—»
Si morse la lingua prima di dire la stronzata.
Mio nonno.
«Di re Arnevor quarto che non si usavano più questi rubini. Quell’infame bastardo ha avuto il coraggio—»
«Zitto.» La piega della bocca di Alarie scese verso il basso. «Stai zitto. Tu non sai cosa vuol dire. Non sai niente.»
«Lo so invece. Ho studiato parecchio. Non ascolti molto, per essere una—»
Si fermò di nuovo, ma non per la paura di tradirsi. Ricordò la piccola Alarie che giocava con lui nel cortile, che insisteva tanto a tirar di spada col maestro di scherma e poi si lamentava di aver messo su muscoli e di dover cambiare vestito per il ballo. Lei gli ricordò la presenza del pugnale con una semplice pressione.
«Un’assassina.»
Una stilla di sangue corse lungo la gola di Malekith.
«Ci tieni alla tua vita, allora. I battiti del tuo cuore galoppano.» Spostò gli occhi di rubino dal suo torace al viso. «Li conosci, questi occhi. Sai per quale motivo li mettono?»
Malekith inspirò. Tentare di afferrare il coltello, bloccarle il braccio, gettarla a terra, tutto sarebbe stato inutile.
Lo so benissimo.
«Ti tolgono la pietà.» La voce di lei gli raschiava la gola. «Uccidere qualcuno di cui vedi solo il teschio e il marchio che lo designa come bersaglio ti rende perfetto. Il sicario perfetto.»
«E funzionano? A te l’hanno tolta?»
Il suo cuore lo tradiva. Non riusciva a calmarlo, non ci era mai riuscito. Eppure, Alarie aspettava. Tolse la lama dalla gola, e fu come un’incudine che svaniva da sopra il suo petto.
«Verrò a prenderti prima dell’alba, nella tua camera. Vedi di farti trovare pronto, Manonera, e niente scherzi.»
«P-pronto per cosa?»
«Hai detto tu di voler uccidere il Cremisi, no? Non sei il solo.»
Soffiò sulla fiamma nella lanterna e svanì nel buio. Malekith restò solo con i battiti del suo cuore e un graffio sulla gola.
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