Le mie mani sudate scivolano sulla roccia e perdo l’appoggio di un piede.

“Aiuto, cado!”

Il cuore mi scivola in gola. Nelson allunga una mano da sopra e mi prende il polso. “C’è mancato poco”.

Chiudo gli occhi e respiro a fondo. “Grazie”.

Mi aggrappo ad altre rocce mentre continuo la salita, anche se sono caldissime e fanno male alle mani. Sono lento, mi devo sbrigare: il nemico è sempre più vicino.

Nel cielo risuonano le grida di falchi e aquile, uccellacci affamati che ci possono mangiare da un momento all’altro. Vado ancora più veloce.

Nelson raggiunge la cima e si solleva con le braccia. “Ci sei quasi”.

È vero, mi manca poco, ma mi sembra di essere ancora lontanissimo. Le braccia e le gambe mi fanno male, tremano, mentre in bocca sento il sapore della terra. Mi aggrappo alle ultime sporgenze, grido con le poche forze rimaste e mi tiro su anch’io, rotolando poi a terra.

Siamo davanti a una foresta. I pappagalli riempiono l’aria con i loro versi assordanti, l’aria è umida sulla pelle del viso. Mi alzo in piedi e mi volto verso lo strapiombo, verso i nemici. Staranno scalando anche loro la montagna? O hanno preso un’altra strada? Non li vediamo da ore…

“Che guardi? Dobbiamo muoverci!”

L’odore di muschio e di erba bagnata mi riempie il naso, ma dopo il caldo della salita, dopo i granelli di terra tra la lingua e i denti, è una bella sensazione. Un’iguana si arrampica su un albero e srotola la sua lingua chilometrica, cattura un calabrone e se lo mangia. Inciampo su una radice che sbuca dal terreno e finisco con il sedere a terra.

“Non ti ricordavo così goffo”, ridacchia Nelson.

Mi sollevo e mi pulisco i pantaloncini dalla terra. “Già”.

Uno sparo risuona nell’aria.

“Sono vicini!”

Nelson si schiaffeggia il viso pieno di zanzare. “Già, non abbiamo tempo da perdere”.

Il sentiero si interrompe all’improvviso e davanti a noi compare un burrone.

“Attento!”, urla Nelson.

Mi aggrappo al tronco di un’acacia poco prima di sprofondare.

“E ora che facciamo?”

Nelson osserva il burrone. “Dobbiamo buttarci”.

“Cosa? Ma sei impazzito?”

“Ci lasciamo scivolare e ci reggiamo alle piante. Non fare il cacasotto”.

Questa volta vado per primo. Sul terreno c’è qualche roccia, ma è quasi tutta terra. Vado piano per paura di cadere, scanso i sassi pericolosi, le erbacce e tutto quello che mi ostacola il cammino.

All’improvviso un urlo di Nelson risuona nell’aria. Mi sfreccia accanto, scivola sulla terra e sulla roccia frenando un po’ con i piedi, e arriva giù in un battibaleno. So già quello che devo fare. Mi lascio andare anch’io, visto che a lui non è successo niente, ma le mani e le suole degli stivali grattano sul terreno. Mi faccio male a un palmo: è solo un taglietto, ma il sangue inizia a sgorgare. Mi distraggo, perdo l’appoggio dei piedi e rotolo a terra.

“Ehi, tutto bene?”

Non rispondo per il troppo dolore. Nelson mi solleva di peso e mi picchia con i palmi delle mani sui vestiti, facendomi ancora più male. “Lasciami andare”.

Mi passa la sua borraccia. “Pulisciti la ferita”.

“Grazie”. Lavo la terra dal taglio e gli ridò la borraccia.

La foresta si fa pianeggiante. Ci sono più alberi e piante, i versi dei pappagalli e dei tucani si sono moltiplicati e sui rami pullulano le scimmie. Due occhi gialli compaiono a terra, si sollevano e dalle foglie si snuda il corpo di un pitone: sembra un tronco d’albero fluido.

Nelson estrae il machete. “Non ti muovere…”

Un comando inutile, sono del tutto paralizzato. Nelson sembra una statua di cera: le gocce di sudore che cadono sono l’unica cosa che si muove. Il pitone ci scruta con occhi impassibili, riabbassa il capo e striscia sui nostri stivali fino a scomparire nella boscaglia.

“Era enorme…”

Nelson scrolla le spalle. “Ne ho visti di più grossi”.

Ci facciamo strada tra rami e foglie che ci sbarrano il cammino e piante carnivore più alte di noi, mentre un torrente in lontananza scorre e rende l’aria più fresca e umida. Il terreno diventa fangoso, le zanzare mi si appiccicano sulla pelle come se fosse ricoperta di colla e affondano il pungiglione nella mia carne. All’improvviso il torrente appare da dietro le piante e le sue acque producono schiuma bianca al contatto con la roccia.

“Non possiamo attraversarlo, è troppo rischioso”.

Mi preparo alla risata di Nelson, che invece osserva il fiume come a cercare dei pesci. “Hai ragione”. Alza lo sguardo e fissa i rami sopra di noi. Che cosa avrà visto? Una liana! Grande come il pitone di prima, scende fin quasi sul pelo dell’acqua da un albero che allunga i rami sul fiume. È grassa e appiccicosa, proprio quello che fa al caso nostro.

Nelson si avvicina al bordo del fiume, allunga i polpastrelli verso la liana e la afferra. “Stai a guardare”.

Prende la rincorsa, corre verso il fiume e, arrivato al bordo, spicca un salto. Vola aggrappato alla liana e arriva fino all’altra sponda: si lancia e atterra con eleganza, come un’acrobata del circo.

Tocca a me. Mi avvicino alla liana che continua a dondolare e la blocco quando arriva a portata di mano. È appiccicosa proprio come sembrava e la superficie è ricoperta di peletti bianchi che mi fanno il solletico sui polpastrelli.

“Sbrigati!”

Prendo anch’io la rincorsa e corro verso il fiume. Salto e volo in aria, ma l’altra sponda rimane lontana e ritorno sulla riva: forse ho anticipato troppo il salto. Ci riprovo. Prendo una rincorsa più corta, salto, ma anche questa volta a vuoto.

“Devi spingere di più con le gambe!”, urla Nelson con le mani a coppa davanti alla bocca.

Provo a seguire il suo consiglio e mi concentro sulle gambe. Rincorsa, salto e via, mi spingo con quanta più forza possibile. Volo in aria e mi stacco dalla liana. Chiudo gli occhi e aspetto l’impatto contro l’acqua gelida, ma atterro su una superficie morbida.

“Ce l’hai fatta! Sbrighiamoci”.

Nelson si addentra nella vegetazione. Lo seguo. Alle nostre spalle non c’è nessuno, ma potrebbero raggiungerci da un momento all’altro. Continuiamo a tenere d’occhio il fiume alla nostra sinistra, unica guida in questo mare di foglie e tronchi, mentre camminiamo con la mano incollata al manico del machete.

“Guarda, una zattera!” Nelson indica verso il fiume, si guarda intorno ed esce allo scoperto, dirigendosi verso la zattera arenata sulla sponda: è fatta di legno marcio in più punti, la corda che tiene insieme i tronchi è sfilacciata.

Mi porto le mani ai fianchi e scuoto la testa. “Sicuro che ci regge?”

Nelson palpa i tronchi e stringe la corda. “No, ma non abbiamo scelta”. Spinge la zattera sul pelo dell’acqua. “Al mio tre saliamo”.

Mi avvicino alla sponda e mi piego su quell’imbarcazione di fortuna.

“Uno, due… tre!”

Saltiamo insieme sulla zattera, che vola via trascinata dalla corrente. L’oscillazione mi fa sbalzare e mi aggrappo ai tronchi. Nelson urla di gioia. “Prendeteci ora se ci riuscite!”

Il vento mi schiaffeggia le guance e spruzzi d’acqua mi bagnano il naso e i capelli: è la sensazione più bella del mondo. In piedi sui tronchi, Nelson slaccia il sacchetto di cuoio appeso alla cintura e prende il diamante, che brilla di luce propria come una stella.

“Stai attento!” La zattera oscilla e Nelson barcolla, ma il diamante rimane incastonato nella sua mano.

“Tranquillo, è tutto sotto controllo”. Nelson rimette il diamante nel sacchetto.  “Non vedo l’ora di andare via da qui, ci aspetta una bella vacanza ai Caraibi”. Nelson sorride e mi abbraccia. Ai Caraibi, certo… sempre se riusciamo a sopravvivere.

La zattera accelera. Ci stacchiamo dall’abbraccio, ma la nostra gioia si spegne subito: in lontananza il fiume finisce e sfocia nel cielo.

“Oh no…”

Le rive sono lontane e la corrente del fiume è troppo forte, non c’è niente che possiamo fare.

Ci vediamo giù”, grida Nelson.

Precipitiamo nel vuoto.

Aaaaaaaaaaah!

Tonf.

Sprofondo per molti metri nell’acqua e la corrente mi risucchia sempre più giù. I polmoni iniziano a farmi male, la mia riserva di ossigeno si sta esaurendo, ma poi smetto di precipitare e risalgo in superficie.

Respiro l’ossigeno a grandi boccate, sono affamato d’aria. Dove diavolo è Nelson? Aspetto qualche istante e mi immergo di nuovo, apro gli occhi ma non riesco a vedere bene, è tutto buio. Riemergo e mi trovo la sua faccia davanti: ha un sorriso a trentadue denti, che risalta ancora di più sulla sua pelle nera.

“Che facevi ancora lì sotto? Dobbiamo muoverci”.

Il rumore della cascata mi spacca i timpani. Nuotiamo nell’acqua schiumosa fino alla riva e ci tiriamo su. Nelson scuote i ricci come un cane bagnato, io mi passo una mano sul viso.  “Ce la siamo vista brutta”.

Nelson strizza i suoi ricci e tira su la testa. “Nessuno è mai morto per un tuffo”.

“Beh, conosco diverse persone che non sarebbero d’accordo, se potessero ancora parlare”.

Nelson liquida la questione con un gesto della mano e inizia a inoltrarsi nella foresta, dove l’aria torna a essere stagnante e le zanzare riprendono a banchettare sui nostri volti.

“Dopotutto, quella cascata è stata una benedizione”. Nelson si schiaffeggia il viso. “Quei cacasotto non si butteranno mai di lì, e per raggiungerci dovranno fare un lungo giro. Abbiamo un bel vantaggio”.

Che non durerà molto, mi viene da dire, ma resto in silenzio.

Una lama di luce si apre davanti a noi. Usciamo dalla foresta e ci troviamo davanti a un ponte di corda sospeso su un burrone.

“Ehi, guarda!” Nelson indica verso il basso.

Alla base del precipizio si trova un mare rosso, che ribolle ed esala un fumo sottile. “Ma è lava…”

Nelson si avvia sul ponte. “Già, se cadiamo finiamo arrosto”.

Lo seguo, ma uno stridere di freni mi fa sobbalzare. Mi volto: una jeep è davanti a noi, immersa in una nube di polvere e terra. Sono loro!

“Muoviamoci!”, urla Nelson. Inizia a correre sulle assi di legno del ponte, che oscilla e cigola.

“Tanto è inutile che scappate! Vi prendiamo lo stesso!”

Non mi volto, ma so chi ha parlato: riconoscerei quella voce tra mille.

Alcuni spari squarciano il silenzio. Colpi di carabina. Mi abbasso per offrire meno superficie possibile, correndo sul ponte sempre più instabile. Altri spari. Un proiettile taglia un pezzo di corda, il ponte si allenta e Nelson barcolla, ma lo aiuto a tenersi in piedi. Continuiamo a correre e raggiungiamo l’altra estremità.

“Presto, di qua!”

Scartiamo verso la parete rocciosa. Dov’era il punto esatto?

“Eccolo!”

Entriamo dentro la fessura nella roccia e camminiamo di lato, con le mani sulle pareti. Le voci da fuori arrivano attutite.

“Forse li abbiamo seminati”. Gocce di umidità stillano dal soffitto della caverna.

Nelson si passa il dorso della mano sulla fronte. “Tanto non ce n’è più bisogno”. Si ferma e guarda in basso. “Pronto? Non fare di nuovo la femminuccia”.

“Ci proverò”. Mi affaccio di sotto. Spirali nere e rossastre ruotano a formare un lento vortice che sprizza scintille, sembra un mare di fanghiglia ultraterrena. “Pronto”.

Nelson urla e si tuffa nella voragine. Un lampo di luce illumina a giorno la grotta, ma si spegne subito e rimane solo un bagliore di fondo.

Rimasto solo, mi prende l’ansia allo stomaco, proprio come l’ultima volta, ma non posso deludere Nelson. Le gambe mi tremano. Chiudo gli occhi, urlo e, senza pensarci troppo, mi tuffo anch’io. Lo stomaco mi risale fino alla gola e la velocità della caduta accelera di colpo, facendomi vorticare in tutte le direzioni. Non vedo più niente, un rimbombo metallico mi riempie le orecchie e mi viene voglia di vomitare: il viaggio interdimensionle fa proprio schifo.

 

***

 

Erba calda mi accarezza le orecchie, la fronte mi prude per il solletico. Apro gli occhi e mi trovo davanti i riccioli scuri pieni di fili d’erba di Nelson. Mi mostra il suo sorriso senza i denti davanti e mi aiuta a rialzarmi.

“Com’è andata la caduta?”

“Malissimo”. Una lucertola, che stava prendendo il sole sul prato, scappa dentro il tunnel di metallo. “Come ogni volta”.

Nelson prende dalla tasca dei pantaloncini il sacchetto di cuoio e me lo dà. “Almeno questa volta abbiamo completato la missione. Tieni”.

Me lo metto in tasca. “Accidenti, ma ho ancora tutti i vestiti bagnati!”

Le nostre mamme ci raggiungono tra i loro schiamazzi e, nella corsa, spaventano un gruppo di piccioni, che prende il volo. La mamma di Nelson lo afferra per la mano e gli tappa la bocca con la mascherina. “Ma dove eravate finiti? Sembravate scomparsi”.

Io e Nelson ci guardiamo, lui mi fa l’occhiolino.

Anche la mia mamma mi sgrida. “Quando ti chiamo devi venire subito, hai capito?” Poi mi tocca la maglietta di Indiana Jones. “Ma sei tutto sudato… Andiamo, prima che ti becchi un accidente”.

Uffa, ogni volta la stessa storia. Mi gratto le bolle rosse sulle gambe e le braccia. Maledette zanzare tropicali, sono molto peggio di quelle nostre.

Nelson riesce a scappare dalle grinfie della madre. Si arrampica sulla parete, corre sul ponte di corda e si lascia cadere sullo scivolo. La madre lo guarda, scuote la testa, anch’essa piena di riccioli scuri, e sorride. Altri bambini sono sull’altalena: si lasciano dondolare, raggiungono la massima altezza e saltano, per poi cadere a terra.

La mamma mi trascina di nuovo nella giungla di cemento, tra le macchine, i clacson e le urla degli automobilisti. “Ogni volta mi fai stare in pensiero. Poi quando ti fai male non venire a piangere da me”.

Mi continuo a grattare senza rispondere. Se solo sapesse le cose che ho fatto veramente, i pericoli che ho corso…

Mi volto, Nelson mi fa ciao con la mano. Lo saluto anch’io e prendo il sacchetto di cuoio. Lo apro, attento a non farmi vedere dalla mamma, che guarda con impazienza il semaforo rosso, e do un’occhiata al diamante al suo interno: la sua luce quasi mi acceca.

La mamma mi trascina di nuovo sulla strada, ma sorrido pensando a quello che mi aspetta. Chissà se le spiagge dei Caraibi sono davvero così bianche come dicono.

Racconto di Lorenzo Angelaccio