Un gran vociare si alzava dalla sala.
Cento uomini discutevano preoccupati, vestiti delle loro toghe bianche e i volti corrucciati.
Le parole non riuscivano ad arrivare cristalline alle orecchie di chi ascoltava, ma si univano in un unico grande rumore nervoso.
Una grande agitazione strisciava tra i gradoni della sala, mordendo e pungendo tutti i presenti.
Era questo lo scenario che si presentava nella sala del Concilio dei Cento.
Un grande agitamento, come quello di un fiume in piena.
Il tema della giornata, però, era uguale per tutti.
Stava succedendo qualcosa che non andava.
E tutti ormai l’avevano capito.
Dalla folla seduta si alzò un uomo. I capelli grigi facevano intuire che l’uomo avesse già visto molte cose nella sua vita e le rughe segnavano le preoccupazioni affrontate negli anni passati.
Tysias non era solo uno dei Cento, ma anche colui che si era distinto di più dai tempi della morte di Iskar, prendendo in mano le redini del Consiglio più volte dalla sua assenza. Poco sarebbe passato prima che i saggi lo approvassero come nuovo leader.
«Ordine in aula» gridò, austero come sempre.
Il silenzio bagnò le labbra a tutti i presenti. Subito gli anziani uomini del Consiglio si rimisero in ordine e le chiacchiere si andarono a spegnere.
L’uomo, voltato verso il folto pubblico, fece ancora tuonare la voce sulle loro teste.
«Mi rendo conto della confusione in cui siamo tutti caduti dopo i recenti fatti, ma vi chiedo di comportarvi come uomini quali siete e non come bambini che non riescono a trattenere le parole.»
Lo sguardo severo passò su ogni singolo volto, in un minuto interminabile di silenzio.
«Ma per fare maggiore chiarezza e aiutarci a comprendere i fatti, ho chiamato qui in aula tre testimoni oculari che potranno illuminarci con le loro testimonianze su cosa è successo fuori dalle mura della nostra Kerkinta.» E dicendo ciò, si girò verso il portone principale della sala, a cui erano state messe due guardie che subito aprirono il passaggio a tre uomini, giusto lì dietro.
«Lakoos di Uprea, Agiste di Kalosya e un nostro concittadino, Cyrenios da Kerkinta.»
I tre uomini, vestiti di colori sfavillanti, si misero in fila davanti al folto Consiglio che teneva gli occhi puntati sui nuovi arrivati.
Erano sì vestiti bene, erano sicuramente mercanti di un certo valore, ma qualcosa stonava nelle loro vesti. Polvere, sporcizia, fin brindelli penzolavano a morto dalle braccia e dalle gambe.
I volti erano spaventati, con gli occhi ancora spauriti e i capelli dritti dallo spavento.
Si guardavano intorno e nonostante fossero uomini già adulti e di una certa dimensione fisica, tremavano ancora come foglie.
«Benvenuti, signori… sapete perfettamente il motivo per cui siete qui, e le nostre orecchie aspettano impazienti di sapere ciò che avete da riferire.» Detto ciò Tysias si sedette al suo posto. Per quanto mostrasse sicurezza e forza, non per questo era meno spaventato dei suoi colleghi lì o di qualsiasi cittadino al di fuori di quell’edificio.
Il primo dei tre a farsi avanti fu proprio Cyrenios, forse rincuorato di essere a casa, nella sua Kerkinta e davanti all’istituzione che da sempre governava insieme agli Arconti quella città.
«Miei Signori…» avanzò di un passo, tenendo in mano un pesante turbante disordinato. «Non so bene come la testimonianza di un comune mercante di turbanti possa aiutarvi, ma se sono chiamato a ciò, renderò il servizio che mi avete richiesto.» Deglutì, abbassando per un attimo il capo.
«Stavo per uscire con il mio carro e l’asino stamattina con tutto il carico, diretto giusto a Uprea per affari… Già dal mattino il mio povero animale non sembrava dell’umore di lavorare, mordendo e agitandosi come fosse stato morso da un serpente.
«Con non poche frustate sono riuscito a sorpassare le porte di Kerkinta quando, dopo un boato gigantesco, ho visto il cielo cambiare colore…» Dopo un profondo sospiro continuò il suo discorso. «Fu allora che il mio povero Akimeni, fidato compagno di viaggio a quattro zampe, ebbe un colpo al cuore e stramazzò al suolo dalla paura. Era ormai anziano e non si…»
Tysias gli fece cenno con la mano di non dilungarsi, donando un altro dei suoi sguardi inquisitori.
«… s-si, dicevo… comunque sono le uniche cose che ho visto. Subito dopo, preso dallo spavento, ho lasciato il carro dov’era e sono tornato dentro le mura. Con ciò ho concluso…» e si ritirò, facendo un passo indietro, mettendosi il turbante alla bell’e meglio sul capo.
Si fece avanti il secondo, Lakoos di Uprea. Dopo aver fatto tutte le riverenze e gli inchini del caso, si mise a parlare.
«Io invece ero in viaggio da Uprea per venire qui a Kerkinta. Avevo con me il mio carico di animali da soma da vendere poi al mercato cittadino, come dodici cammelli, una decina tra asini e muli e qualche cavallo. Quello che posso riferire è che giusto nelle vicinanze di Kerkinta, giusto prima che il cielo assumesse la colorazione attuale, ci fu un violento terremoto che ha aperto faglie gigantesche nella sabbia, come smagliature che si strappavano. Ho perso molti animali giù da quei dirupi, e molti altri sono fuggiti al mio controllo scappando in mezzo al deserto. Ne sono giusto riuscito a salvare uno, che poi è quello che mi ha condotto di corsa fino a qui per cercare di salvarmi.» L’uomo in effetti non sembrava raccontar fandonie, visti i pantaloni larghi pieni di sabbia che rotolava giù dalle vesti a ogni singolo movimento dell’uomo.
Il terzo mercante non fu da meno e raccontò con ancora la voce tremante come, dalla costa di Kalosya a Kerkinta, a bordo della sua barca, avesse perso moglie e figlia insieme a tutto il carico di perle che avrebbe voluto rivendere all’acropoli. Questo per colpa di una gigantesca onda, frutto di un maremoto improvviso. Solo quando riemerse dall’acqua anche lui vide il cielo color verde-acqua che tutti ormai avevano ben visto.
Il silenzio era per la prima volta il sovrano incontrastato di quella sala, Re egemone sul Consiglio.
Ma una domanda era fissa nelle menti di tutti.
Che fare ora per salvare sé stessi e la città?
Prese di nuovo parola Tysias dopo una lunga meditazione fra sé e sé. “Portateli fuori…” accennò di poco con un cenno della mano e i tre uomini furono riportati al soglio.
Si alzò di nuovo, anche se stavolta più appesantito, come se sulle spalle portasse una nuova fatica, un nuovo dolore.
E si rivolse agli altri consiglieri.
«Metto al voto la proposta della chiusura più totale di Kerkinta. Nel giro di un’ora le porte verranno sigillate, chi vi è dentro ne rimarrà dentro, chi resta fuori resterà all’esterno fino a nuovo ordine futuro. Vengano richiamati tutti gli abitanti a fare provviste per le settimane a venire entro le prossime due ore. Le finestre serrate e le porte chiuse, chiusura di locande e bordelli, negozi e botteghe a partire dal tramonto. Non sappiamo cosa sta per succedere, ma se i preavvisi sono questi, dobbiamo prepararci a una calamità naturale atroce. È una situazione estrema quindi richiedo un voto immediato alla proposta… in quanti sono d’accordo?»
Novantanove mani si alzarono.
Il caos dilagava come un fiume in piena tra le strade di Kerkinta.
Mentre alcuni, con saggezza, avevano seguito gli ordini impartiti dal Consiglio e dagli Arconti il giorno prima, murandosi in casa, tappando finestre e spifferi, con quelle poche provviste arrabattate e tante preghiere verso la Dea, molti si erano ritrovati nel caos più totale, chiusi fuori di casa, senza che nessuno volesse più farli rientrare o solo aiutare. Come in un formicaio in cui la porta d’ingresso era stata sigillata da una frana, non si capiva bene se fossero più fortunati quelli murati nelle loro case, al buio e facili prede che si erano rintanate nella loro stessa bara o quelli che invece vagavano per le strade, da soli, alla mercè di quello che c’era fuori ma sempre con la possibilità di muoversi, nonostante le mura della città sigillate.
Atalos vagava disperato per le vie.
Era sfuggito al controllo della madre e si era avventurato per Kerkinta. Gli avevano riferito che Odena non era più a casa sua, era fuggita qualche giorno dopo il suo matrimonio e nessuno ne aveva più avuto notizia.
Nonostante sapesse quanto fosse mortale e pericoloso uscire di casa, in cuor suo sapeva che avrebbe preferito mille e cento volte di più morire con Odena piuttosto che fare la talpa nella propria dimora, al buio e senza di lei.
Vagava, come anima sperduta vaga appena perso il proprio corpo mortale.
Il caos regnava ovunque e lui veniva calpestato e spintonato dalla folla in fuga.
Sì, ma in fuga da… cosa? Pensò.
In effetti, per quanto prima ci fosse gente come lui che girovagava senza meta, o andava a bussare di porta in porta chiedendo aiuto e ospitalità, da qualche metro a questa parte il ragazzo notò che tutti avevano preso la direzione opposta alla sua, correndo a perdifiato e gridando come ossessi.
L’istinto gli diceva di seguirli, di andarsene finché era ancora in tempo, ma allo stesso modo il basso livello di autoconservazione, tipico dei giovani immaturi, e la sua curiosità lo spingevano ad addentrarsi proprio in quei vicoli dai quali la gente scappava.
Sapeva che avrebbe trovato la sua Odena, lo sentiva dentro…
Il cuore pulsava come il martello di un fabbro impazzito, battendo nel petto a ritmi mai sentiti.
La sudorazione si era fatta copiosa e le gambe gli tremavano.
Ma continuava ad andare avanti, tra uno spintone e l’altro.
Quando finì l’ultima ondata di persone, la strada si fece di colpo silenziosa. La mandria impazzita di cittadini aveva sorpassato il ragazzo gridando e correndo, e dopo di loro fu il nulla.
Il silenzio più mortale.
Nell’aria si muoveva solo la polvere agitata dal passaggio delle persone, e poi più nulla.
All’improvviso, quella strada di Kerkinta si era fatta quasi aliena agli occhi di Atalos, sconosciuta ed estranea. Il cervello nemmeno più riusciva a distinguere la realtà da quello che stava vendendo e sembrava tutto solo un brutto incubo, anche se molto, molto realistico…
E poi un singhiozzo. E un altro a seguire.
Il ragazzo si lanciò in corsa e dietro al primo angolo vide ciò che in cuor suo sperava di vedere, ma non così.
Odena era a terra, distesa, con le braccia protese in avanti e un piede in una posizione non naturale e contorto.
Doveva essere stata insieme a quello sciame di persone che però, nella calca confusa, non avevano notato che la ragazza era inciampata, rompendosi una caviglia con un sasso. La avevano calpestata come una mandria di buoi impazziti.
Lei però stava lì, a singhiozzare, da sola, con i lunghi capelli corvini riversi a terra e il bell’abito rosso sgualcito e impolverato.
Atalos, con le lacrime agli occhi che scendevano grosse come perle, si mise a correre verso la ragazza, cercando di raggiungerla.
Dopo un primo momento di confusione, dovuto forse alla caduta, la ragazza riconobbe gli occhi dell’amato.
«Atalos…» sussurrò.
«Odena! Odena! » le rispose, correndo ancora verso di lei.
«Vattene, idiota, vattene…» Digrignò i denti per il dolore, ma anche per averi visto Atalos in quella situazione pericolosa. Era riversa a terra e nonostante il dolore al piede e alla caviglia, l’unica cosa che le importava era far allontanare Atalos da quel posto infernale. Lei aveva visto…
«No, ti porto via con…»
«Atalos, vattene immediatamente! Vattene, ho detto, girati e non tornare mai più!» gli gridò, disperata.
Aveva già accettato la sua morte, ma non si sarebbe mai perdonata di essere stata la causa della morte del suo Atalos.
Il ragazzo si pietrificò sul posto.
Non l’aveva mai sentita urlare così, con tanto dolore nella voce e nel cuore.
Lei ricadde a terra, stremata da quel grido di disperazione, allungando flebilmente solo un braccio verso di lui.
Ma proprio quando il ragazzo sembrò risvegliarsi dal suo stato di torpore, lo vide.
Dietro alla ragazza era comparsa una figura alla stregua di un fantasma. Era alto quasi cento piedi, di un bianco cadaverico, e sembrava fatto di pura nebbia condensata. Non aveva occhi, bocca, naso, ma solo una vaga forma umanoide, con quelle che sembravano due gambe e due braccia.
Ma appena la figura si era fatta chiara allo sguardo di Atalos, in un nonnulla cambiò ancora, modificandosi e creando dapprima quasi due cavità dove in un teschio umano ci sarebbero stati gli occhi, per poi mutare nuovamente e creare una voragine che partiva dalla testa e arrivava quasi al centro del petto, irta di denti biancastri e aguzzi.
Per ogni volta che sbatteva le ciglia la figura cambiava ancora, come se fosse stato un banco di nebbia mosso dal vento. Non vedeva mai due volte la stessa immagine, che pian piano continuava a modificarsi mantenendo però un torso ben delineato come base.
E lì, proprio in mezzo a quel busto, mentre tutto il resto cambiava, sembrava giacere qualcosa, una pietra, bianca come l’essere che la portava, quasi sospesa in questo ammasso di nebbia antropomorfa.
L’essere si avvicinò a passi lenti e silenziosi alla ragazza, muovendo la testa da un lato all’altro come a studiarla.
Odena alzò per l’ultima volta la testa, mostrando i grandi occhioni neri rigati di lacrime amare, e con l’ultime forze sussurrò a mezza voce, quasi solo labiale «Atalos, vattene…»
Non era stato scritto che i due si potessero amare, e Odena l’aveva capito da tempo.
In quell’esatto momento aveva compreso che la sua vita e quella di lui, per quanto fossero così affini e in simbiosi, non erano destinate a intricarsi e stringersi in un nodo saldo.
Non era quello il loro destino, sarebbero rimasti per sempre amanti infelici, per quanto innamorati.
Odena era giovane, ma l’aveva capito. E aveva lasciato il destino fare il suo corso.
Non aveva più senso per lei combattere sapendo che mai sarebbe potuta essere ciò che voleva essere, ossia la compagna della vita di Atalos. Non avrebbe forzato il destino. L’aveva accolto nel suo cuore e accettato con dolore il messaggio che portava.
Atalos e Odena non sarebbero mai potuti vivere in pace e insieme.
Dopotutto, di storie di amanti straziati e amori dolorosi ne era piena la storia, e nessuno poteva farci nulla.
Il mostro afferrò tra le mani vacue la fanciulla e iniziò a stringerla.
Odena era cosciente e, nonostante in un primo momento non avesse emesso mezzo rumore, quando si sentì sollevare gridò dal dolore.
L’altro braccio libero della creatura andò a posare un dito sul petto della ragazza, con fare quasi delicato ed etereo.
All’improvviso, sulla spalla di Odena si andò a creare un’escrescenza carnosa orribile, rossa sangue, e piena di vene pulsanti che man mano assumevano sempre di più un colore scuro.
Atalos era ancora fermo, pietrificato davanti all’orrore che gli si stava presentando agli occhi.
La sua amata Odena era stata catturata dall’essere di fronte a lui e, con il suo semplice tocco, in pochi secondi la pelle della giovane si stava riempiendo di tumori a vista d’occhio. Il corpo della ragazza sembrava ribollire dall’interno, in una tempesta interna che le causava la nascita e l’ingrossamento di bulbi sia sulla pelle che all’interno.
La creatura fece cadere a terra il suo giocattolino, già stanca di giocarci.
Odena cadde al suolo morta, deformata in volto e nel corpo da una miriade di tumori e metastasi.
Per Atalos non ci fu più nulla al mondo. Anzi, in quel preciso momento il suo mondo era morto con Odena.
Non poté far altro che cadere in ginocchio e desiderare di morire in quell’istante.
La sua Odena, la sua unica ragione di vita era stata vittima di un mostro che l’aveva fatta morire nel modo peggiore che un essere umano potesse pensare.
Un grido di allucinante sofferenza si levò al cielo, così forte da lesionare la gola al povero Atalos.
In preda al dolore più lancinante prese il primo sasso che trovò per terra e con tutta la forza che gli rimaneva in corpo lo scagliò contro il mostro frutto dell’inferno.
«Demone! Mostro! Sei un maledetto assassino!» gli gridò, accecato dal dolore.
Era pur sempre un ragazzo figlio dell’aristocrazia, non era in grado di fare gesta eroiche, e nemmeno era armato da potersi lanciare in combattimento contro la figura nebbiosa.
Il sasso lanciato sembrò appena sfiorare quella pietra al centro del petto dell’essere, e la cosa parve irritarlo non poco. Presa dall’ira, l’entità modificò ancora la propria forma. Una delle braccia diventò una gigantesca mano con dita ad artiglio che, con una spazzata di fronte a sé, prese il ragazzo in pieno e lo sbalzò contro un muro.
Tagli profondi tre dita si erano andati a disegnare sulla carne di Atalos, ormai esanime accasciato a un muro e tra i detriti di esso.
Era finita anche per lui.
Negli ultimi istanti di vita, girò il capo verso la sua Odena, ancora riversa a terra, morta.
Allungò un braccio preda del dolore, come a volersi avvicinare a lei un’ultima volta.
«Non… ci siamo amati qui…» sussurrò al vento, riversando sangue sulle labbra bianche.
«… ma ci ameremo… tra le stelle.»
Detto così, il braccio ricadde al suolo come un macigno mentre la testa si abbandonò su una spalla.
–
Racconto di Chiara R.
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