«Quanto avrai seminato, tanto mieterai».

  1. Tullio Cicerone

 

I

 

Mi laureai in biologia nel dicembre del ‘21. Avrei potuto concludere gli studi con un anno di anticipo, ma la pandemia e l’infruttuoso tirocinio che portai avanti a Roma fino all’estate di quello stesso anno mi costrinsero ad allungare i tempi. Fui proclamato dottore il 13 dicembre, e impiegai diversi giorni per rendermi conto che la sofferenza era davvero finita. Passai uno splendido Natale in famiglia nella casa di Gurguri, in Sabina, e quasi dimenticai ciò che fino ad allora avevo sopportato. Tornai a uscire la sera e a vedere gli amici e a sorridere. Tornai a vivere la vita che non rammentavo mi appartenesse.

Prima della fine dell’anno fui contattato dalla dottoressa Basile, responsabile di un piccolo gruppo di ricerca presso l’ospedale universitario Pietas, in provincia di Milano. Scriveva che aveva ricevuto le mie credenziali tramite la professoressa Koch – coordinatrice del mio corso di studi, cui io avevo inoltrato le generalità in qualità di neolaureato – e che stava tenendo dei colloqui per una posizione da biologo computazionale. Diedi la mia disponibilità, sostenni il colloquio per videochiamata e dopo l’Epifania mi fu comunicato che avevo ottenuto il posto.

A fine mese, accompagnato da mio padre, mi recai a Milano in visita all’istituto. Conobbi la dottoressa Basile e i ragazzi miei futuri colleghi. Ricordo vividamente il momento in cui incontrai la dottoressa, entrando nel suo ufficio. Ricordo i suoi occhi di acquamarina luccicare sopra la maschera chirurgica. Mi trattenni a Milano per il finesettimana ed ebbi il tempo di visitare il bilocale che di lì a un mese avrei preso in affitto. Avrei cominciato a lavorare i primi di marzo e mi stabilii nella nuova casa sul finire di febbraio.

Confesso che l’impiego da biologo computazionale non era ciò cui anelavo – v’erano altre branche della biologia che avrei preferito esplorare –, ma decisi di sfruttare l’occasione e seguirono tre mesi durante i quali lo stimolo della ricerca, il livello dell’istituzione e la compagnia dei colleghi mi resero grato per ciò che avevo ottenuto.

Senza dubbio la pausa pranzo era il momento che attendevo maggiormente. Lavoravo in un ufficio silenzioso e poco illuminato assieme ad altri biologi. Verso l’una mi ricongiungevo al gruppo per andare in mensa. Al completo eravamo in sei, quattro donne e due uomini, tutti ragazzi fra i ventiquattro e i trentacinque anni. Dopo aver mangiato spendevamo parte della pausa nel cortile su cui davano i tre edifici dell’ospedale, e talvolta si univano ragazzi di altri gruppi per scambiare qualche parola prima di tornare al lavoro. Mi piaceva molto il cortile. C’era l’ampio prato d’erba tagliata di fresco e i giovani alberi sorretti dai pali di sostegno e gli sghembi camminamenti lastricati colle panchine. Spesso mi sono seduto in cortile a contemplare il giardino. Ascoltavi le voci dei ragazzi diretti in facoltà e sentivi gli storni fischiare e razzolare nel verde, e poi vedevi le vespe mangiucchiare il legno delle panchine e i bombi piegare gli steli dei tarassachi. Mi piaceva attendere che l’aria della notte si colmasse del calore del mattino. È piacevole la sensazione che dà, di primo mattino, una giornata calda.

Era giugno, e avevo conosciuto Andrea due settimane prima, quando per pranzo si era unita al nostro tavolo. Ragazza del barese, sui venticinque, pressappoco la mia età.

– Vado al concerto a luglio, Livio, – mi disse, indicando con un cenno la maglia dei Guns N’ Roses che indossavo. Chinai il capo sul logo che portavo al petto.

– Davvero? Quand’è?

– Il 10, mi pare.

– Ah, adesso.

– Sono stata fortunata. Ho un amico che fa il fonico ed è sempre aggiornato su eventi, concerti. Mi ha detto che i posti non erano ancora esauriti e ieri ho preso il biglietto.

– Dai, chissà se c’è ancora qualcosa, – dissi, più in difesa della mia maglia che per reale interesse.

– Sì, c’è, controlla! Fino a ieri c’era. Sono posti in alto, però è meglio di niente. Non costano neanche tanto –. Feci una smorfia. Odio quando le persone ti fanno i conti in tasca.

– Sarà a Milano? – le domandai.

– A San Siro.

Non ripensai ad Andrea e ai Guns N’ Roses per i due giorni successivi, finché non mi capitò di leggere in rete del concerto. Mi piacevano, i Guns N’ Roses. Mi piacciono ancora. In quarto ginnasio Luigi Procopio ed io cantavamo Paradise City battendo sui banchi e alternandoci nei versi. «Take me down to the paradise city / where the grass is green and the girls are pretty».

Pensai che in fondo si trattasse di un’occasione unica. Io lì a Milano e la data italiana di un gruppo di calibro mondiale. Indugiai un altro giorno e infine acquistai il biglietto. Era vero, non costò poi tanto. Ed era un posto in alto, come aveva detto Andrea. Ma, mi dissi, lo stadio era enorme e sarebbe comunque stato un bello spettacolo.

Non appena conclusi l’acquisto ebbi un tremendo senso di colpa. Fu mia sorella a portarmi per la prima volta a un concerto allo stadio. Me lo chiese subito dopo che nostra madre le aveva impedito di andarvi da sola. Sarei andato allo stadio e non le avevo neanche chiesto se le sarebbe garbato accompagnarmi. Sapevo che non stravedesse per il genere di musica, ma mi sentii meschino ad aver agito in quella maniera. Perché diamine avevo acquistato il biglietto senza prima sentire mia sorella? Mi sentii terribilmente in colpa. Le feci uno squillo.

– Livio… – Esitò. Seppi subito che non sarebbe venuta e ne fui sollevato. Non avrei dovuto cedere il biglietto per acquistare due posti affiancati. Ma mi avrebbe fatto piacere andare al concerto con mia sorella, dico davvero. – Livio, non lo so, ho un po’ da studiare per la sessione. Poi, il viaggio…

In ottobre si era trasferita a Viterbo per frequentare l’università. Scelse la facoltà di scienze biologiche, la mia stessa facoltà. Probabilmente i miei studi le furono da modello, ma feci il possibile per non influenzarla. Anzi, spesso tentai d’indirizzarla verso la chimica, il suo primo interesse accademico. Eppure vi trovavo allora – e vi trovo tuttora – un profondo senso di ordine e di naturalezza e di fratellanza nel fatto che avessimo entrambi scelto la medesima facoltà. E prima ancora lo stesso liceo. Da bambini giocavamo sempre insieme, benché fra noi ci siano quasi sei anni di differenza.

Comunque, se davvero avesse desiderato accompagnarmi, non avrebbe esitato e mi avrebbe risposto raggiante. Fu ciò che poi disse anche mia madre.

– Ele, tranquilla, – dissi, – vedi un po’. Vedi quello che riesci a fare. Pensaci su e mi fai sapere. È il 10. Se decidi di venire, io posso cedere il biglietto e ne troviamo due affiancati.

– Sicuro? – domandò Eleonora. – Non è troppo complicato?

– Ma no, tranquilla. Si può fare.

– Come si fa?

– C’è un sito per la rivendita autorizzata. Capita di non poter andare.

– Quindi i soldi si riprendono?

– Non ti preoccupare per i soldi.

– Certo che mi preoccupo per i soldi.

– Non è un problema, tranquilla, – dissi. – Si rivende allo stesso prezzo –. In verità non ero certo che a metà giugno avremmo trovato due posti affiancati, foss’anche nel settore più remoto.

– Va bene, – disse, – vedo quello che riesco a fare.

– E mi fai sapere.

– Ti faccio sapere.

 

II

 

Il 10 luglio arrivai a Milano di buon’ora. Era domenica. Presi la tranvia sulla linea di Gratosoglio e giunsi in via Cesare Cantù che non erano ancora le undici. Il treno era andato stipandosi sulla via per il centro e arrivai alla fermata pigiato nella calca. All’apertura delle porte la folla si disperse rapidamente sulla banchina, come scarafaggi sorpresi dalla luce. Imboccai via Orefici, rigidamente perpendicolare, e la percorsi fino a piazza Cordusio.

Camminando lungo il marciapiede sinistro m’imbattei in un singolare locale dall’entrata stretta e incassata nella parete dell’edificio. L’insegna recava la scritta «FAO SCHWARZ». Mi fermai lì di fronte e impiegai qualche istante prima di capire che si trattava di un negozio di giocattoli. Ho sempre amato i negozi di giocattoli. Li ho amati di un amore che nel tempo è andato somigliando dapprima alla cupidigia e infine alla nostalgia. Entro sempre nei negozi o nei reparti di giocattoli, pur sapendo che in fondo non comprerò.

Entrai nell’entrata stretta e incassata del negozio. Una dipendente all’ingresso mi diede il benvenuto lanciando in aria un pollice finto da prestigiatore, che s’illuminò come una lucciola rossastra, per poi ricadere e scomparirle fra le mani, e notai che anche la sua divisa da lavoro era rossa e pensai che fosse vestita come un domatore di leoni, e poi guardai i commessi dietro le casse e mi accorsi che invece era una qualunque divisa rossa e gialla e nera, e sorrisi, e pensai di essere stato sciocco a credere che fosse l’uniforme da domatore di leoni; e poi feci un giro e scesi al piano inferiore e poi salii al piano superiore, e vidi tanti giocattoli che mi piacquero molto e pensai una cosa ma non ricordo che cosa; e poi tornai indietro, e salutai la prestigiatrice che intratteneva i bambini, e vidi un annuncio di ricerca del personale e pensai che – perché no? – anch’io avrei potuto lavorare in un negozio di giocattoli e guadagnarmi da vivere come giocattolaio e come mago; e poi scesi le scale e salutai la ragazza col pollice finto, e poi uscii dal negozio.

C’era molto traffico in piazza Cordusio. Vi rimasi poco e ridiscesi per via dei Mercanti, oltrepassando un ambulante  d’intagli su richiesta. Ricordai che parecchi anni prima, in gita scolastica a Roma o a Firenze, feci fare un intaglio per Eleonora col nome e un delfino sorridente, perché lo mettesse sulla porta della sua camera. Dev’essere ancora lì, a Gurguri.

Entrai in piazza Duomo dall’angolo nordoccidentale e m’infilai sotto il portico, trasportato dal flusso di persone. Davanti a me camminava una bella ragazza. La seguii per un tratto, finché non prese a sinistra per la Galleria, e mi fermai. Pensai a me, da solo, che seguivo una ragazza, da sola, e provai imbarazzo, e presi per la direzione opposta. Ero decisamente in anticipo sul concerto, che sarebbe stato quella sera dall’altra parte della città, e dunque passeggiavo senza meta, ma seppi con assoluta certezza che, pur senza averla, non l’avrei trovata lì in Galleria, dietro la bella ragazza. Non l’avrei voluta trovare lì, la mia meta.

La piazza era affollata, ma a quell’ora non era ancora gremita. Ebbi la sensazione di sorprenderla in un momento privato e segreto, quando ancora l’aria conservava la sua freschezza e le ombre degli edifici circostanti non erano del tutto scomparse. Tagliai nel turismo. Feci frullare le ali a una dozzina di colombi che si preparavano a becchettare molliche dalle braccia di una donna asiatica. Passai nel mezzo di una coppia, mentre l’uomo scattava una fotografia. I due bofonchiarono qualcosa e capii ch’erano spagnoli, e mi scusai.

Lo siento.

     Está bien.

Mi rammentai del Duomo soltanto quando raggiunsi l’ombra del portico meridionale. Mi voltai e feci qualche passo indietro, contemplando l’architettura bianca e imponente. Neanche allora mi comunicò poi molto. Non ne amo la forma – troppo tozza, mi dico, troppo pesante, ogniqualvolta la veda. Abbandona troppo cielo di là dalle guglie e non lo abbraccia, non lo avvolge, non lo fa proprio, e nemmeno gli lascia assai spazio perché possa respirare e imporsi grandiosamente.

Lasciai la chiesa dov’era e proseguii lungo le bancarelle del libro usato, allestite provocatoriamente dirimpetto alle vetrine di Mondadori. Se v’è un negozio dove spendo volentieri quantità indecorose di denaro, questo è la libreria, ma di fronte a quell’affastellamento di volumi mi guardai bene dal mettervi piede. Passai in rassegna i dorsetti già piegati. Corteggiai un resoconto del 1756 del Concilio di Trento rilegato in cuoio, dalle belle pagine ruvide stampate di nero e di rosso, redatto in latino. Infine lo posai a malincuore, preferendogli Hemingway. Era uno dei Meridiani, sicché non mi sentii troppo in colpa per non essere entrato nella libreria.

Un passante si accostò al banco dei libri antichi con mirata curiosità. Prese a maneggiare le rilegature in cuoio come per posizionarle secondo un ordine particolare.

– Questo quanto costa? – domandò.

Il libraio sollevò lo sguardo da alcuni volumi. – Lascia stare.

– Quanto costa?

– Duecento euro.

– E questo?

– Trecento. Lascia stare –. Si allungò sul banco per togliergli i libri di mano. – Via, vai via.

L’uomo interruppe il lavorio e tornò sui suoi passi senza replicare.

– Lo conosciamo, – disse il libraio, – fa sempre così –. Si allungò nuovamente e prese due volumi che l’altro aveva chiuso e accatastato. Bilanciò il primo in verticale a mantenere fermo il secondo, che gemette spalancandosi s’una stampa pregevole.

Era qualche minuto dopo mezzogiorno. Dalla piazza scesi nella stazione del metrò. Superai i tornelli e vidi un uomo corpulento in abiti sportivi giallo segnaletico chiedere indicazioni per il concerto agli addetti. Scesi le scale mobili, poi una rampa di scale e poi un’altra, e mi fermai lungo la banchina. L’uomo corpulento giallo segnaletico scese le scale e si fermò anch’egli lungo la banchina. Armeggiava col telefono, guardava lo schermo. Alzò gli occhi sui treni annunciati, abbassò lo sguardo, sollevò gli occhiali da sole sulla fronte, alzò di nuovo gli occhi sul tabellone. Non potei fare a meno di osservarlo. Fui colto dall’istinto del buon samaritano.

– Va anche lei al concerto? – gli domandai.

– Sì, – fece l’uomo, – è giusto, qui, no?

– Sì, è questo il binario.

– È il prossimo?

Lessi il treno annunciato. – No, è l’altra direzione.

– E poi bisogna cambiare.

– Sì, a Lotto bisogna prendere la linea lilla.

– Dove?

– Lotto. Come l’estrazione.

Tornai a badare ai miei affari. Dal fondo della galleria crebbe un rombo metallico, subito seguito da un brusco spostamento d’aria. Mi accorsi di non aver patito il caldo fino a quel momento. Da settimane ormai le temperature superavano trentotto gradi all’ombra; ma il refrigerio dell’aria sotterranea fu piacevole. Feci un passo verso la linea gialla increspando gli occhi.

– Sei di Milano? – mi domandò l’uomo giallo segnaletico.

– No, – risposi, – di Roma, ma lavoro a Milano –. Non ebbi voglia di spiegare dove si trovasse Gurguri o la Sabina.

Per cortesia mi sentii obbligato a porgere la stessa domanda. In quell’istante perdetti ogn’interesse per il mio interlocutore.

Era pugliese, di Foggia. Caspita, doveva essere stato un bel viaggio. Sì, era stato un bel viaggio. Era riuscito a fermarsi soltanto due volte, una per mangiare e una per andare in bagno. Aveva preso una stanza per due notti vicino allo stadio. Quella mattina era andato in centro presto, sai, per fare un giro, per prendere un ricordino. Aveva visto il Duomo, la Galleria. Anche la Scala, aveva visto anche la Scala. Veramente quasi non l’aveva notata, ci era dovuto passare davanti due volte. Nel Duomo ci era anche entrato, in realtà, aveva fatto il giro completo. Per venti euro, sai, ti facevano fare il giro completo. Era salito proprio su in cima, dove c’era la Madonnina. Da vicino era più grande di quel che sembrasse, la Madonnina. Io ero mai salito fino a su? Io avevo mai visto la Madonnina? No, non avevo mai visto la Madonnina; ero soltanto entrato nella chiesa. Ne valeva la pena, sai, da lì c’era una bella vista, da lì si vedeva tutta Milano. E poi ti facevano fare il giro completo per soli venti euro, ne valeva la pena.

Io avevo detto di essere di Roma? Sì, ero di Roma. Era stato a Roma, sai. Due settimane prima era stato a Roma per il concerto di Venditti. Io ero mai andato a un concerto di Venditti? No, non c’ero mai andato. Mi ero perduto un bello spettacolo. Era stato un bello spettacolo il concerto di Venditti. Non mi dovevo preoccupare, anche il concerto dei Guns N’ Roses sarebbe stato un bello spettacolo. Io ero già andato a un concerto dei Guns N’ Roses? No, non c’ero mai andato. Anch’egli non c’era mai andato, sarebbe stata la prima volta. Sarebbe stato certamente un bello spettacolo. Però prima di andare al concerto sarebbe dovuto passare dalla macchina, per lasciare le cose che aveva comprato. Era venuto in centro col metrò, sai, era molto più comodo. Però non ricordava che strada avesse fatto. Non ricordava neanche dove avesse parcheggiato, forse vicino all’albergo. Sì, doveva essere vicino all’albergo. Ma aveva il posto registrato sull’applicazione, quindi non c’era da preoccuparsi.

Prima di venire in centro, quella mattina aveva trovato uno specchietto a terra. Caspita, che sfortuna. Già, forse era stato qualcuno facendo manovra. Non aveva trovato nient’altro, neanche un biglietto. Neanche in portineria ne sapevano nulla. Che sfortuna. Caspita, che sfortuna. Ma il concerto sarebbe stato un bello spettacolo. Sì, sarebbe stato un bello spettacolo.

 

III

 

Visto da alcune centinaia di metri, San Siro è una colata di cemento squadrata in equilibrio su quattro molle. Le molle sono anch’esse immense colate di cemento, tuttavia cilindriche, al cui esterno corre tutt’intorno a spirale una scanalatura, che permette agli spettatori di raggiungere i settori più in alto evitando la scalinata al centro dei piloni. I camminamenti a spirale consentono parimenti l’esodo dei sessanta, ottanta, centomila paganti. Quando lo stadio ospita eventi serali che terminano a notte inoltrata, il deflusso a spirale delle persone che camminano rapidamente in sincronia sui diversi livelli della passerella, illuminata di un bianco ospedaliero, diviene un fenomeno surreale. Assisti al costante avvitamento e all’immobile inabissamento di un’architettura priva di razionalità, manovrata dalla folla brulicante intrappolata al suo interno, che lavora incessantemente alla sua stessa inesorabile rovina.

Attraversai la strada e il piazzale d’asfalto ch’era un lungo miraggio di calore. Man mano che mi facevo sotto lo stadio, mi parve di avanzare nella sospensione dell’Abbazia nel querceto di Friedrich. Ora che ne scrivo potrei dire che il dipinto mi sovvenne poiché, come i monaci trasportano a spalla il feretro del confratello verso l’altrettanto poco vitale architettura, così coloro che sciamavano nel piazzale d’asfalto – me compreso – trascinavano la passione di una musica morente verso il grigiore dello stadio; potrei dirlo, ma mentirei. Non pensai a nulla di tutto ciò. Mi venne soltanto in mente il dipinto e nient’altro.

Oltrepassai ambulanti a destra e a sinistra tra bancarelle di accessori e furgoncini di birra e panini, il cui lezzo ti toglieva l’appetito. Cercai l’ingresso numerato riportato sul biglietto e guadagnai un posto all’ombra di fianco alla transenna. Volli assicurarmi di non essere lontano dall’ingresso prima che venisse a formarsi la calca. Dagli stessi furgoncini provenivano a ripetizione le canzoni che sarebbero state eseguite di lì a poche ore. Tra le ringhiere all’ombra e gli ambulanti, uomini e donne facevano la spola, borchiati o tatuati, o entrambi, occhiali neri e maglie nere e scarponcini neri. I pantaloni erano variabili. Alcuni uomini si risparmiavano la briga di tenere indosso la maglia, esponendo le pance nude e villose. Le rimanenti presenze – il padre solo o la madre sola, assieme ai due figli, coetanei, sorella e fratello che fingono di non conoscersi; i due amici tanto grassi quanto spaesati, che trasudano malessere; la giovane coppia, ella in bilico sulla transenna ed egli tra le sue gambe, e tutt’e due cogli occhi chiusi nel fumo dell’erba bruciata –, le rimanenti presenze stonavano a tal punto da farmi sentire a mio agio.

Comunque, posai tra i piedi lo zaino che avevo e diedi le spalle alla transenna, poggiandovi i gomiti. Alla mia destra notai una donna, poggiata allo stesso ferro. Ebbi una strana sensazione. La osservai, e più guardavo, più vidi particolari il cui complesso fu il culmine delle stonature che mi circondavano. La donna mi dava le spalle, sicché non la misi in soggezione né ebbi modo di risultare scortese. Fu piuttosto ella, di spalle, a intimorirmi, poiché era rivolta al muro, pur assumendo la tipica posa di chi attende qualcuno e allunga collo e occhi nella direzione da cui si aspetta provenire l’atteso.

L’abbigliamento della donna era totalmente fuori luogo: indossava un abito dalle maniche lunghe fino ai polsi candidi, che scendeva oltre le ginocchia sul cuoio lucido degli stivali neri; la stoffa bianca, sottile e aderente, evidenziava la biancheria. Era sgradevole a guardarsi. Tra le scapole della donna pendeva la massa di capelli scuri, irrigidita dall’eccesso di brillantina. Alcune ciocche erano incollate tanto da formare pertugi. Sulla nuca, nel più largo di questi pertugi, era appeso uno scarabeo asiatico. Lo stesso scarabeo asiatico che puntualmente s’invitava a sciami ai pranzi all’aperto coi miei colleghi.

Ora che ne scrivo apprendo che si tratta di un coleottero giapponese, tale Popillia japonica, che invade le coltivazioni lombarde sin dal 2014. Possiede delle meravigliose elitre verde iridescente e zampe armate di uncini, non banali a essere estratti da stoffa e capelli.

La donna mi diede l’idea di attendere qualcuno. Mi diede l’idea di attendere qualcuno da così a lungo che gl’insetti si erano acclimatati alla sua presenza. Di fatto, sapevo che quello scarabeo fosse piuttosto noncurante della presenza umana, ma la donna mi diede quell’idea. Mi piacque pensare a quell’idea.

Aveva conosciuto un uomo in rete, un uomo grasso e sudaticcio che si era detto brutto ma prestante per risultare più credibile. Si erano scambiati messaggi per qualche tempo, fino a decidere d’incontrarsi senza mai essersi visti prima. Si erano dati appuntamento al concerto, all’ombra dell’ottavo ingresso allo stadio, ma all’ultimo l’uomo si era vergognato di aver mentito e di sé stesso come mai prima di quel momento, e per risolvere la situazione aveva deciso che non si sarebbe presentato, lì all’ombra dell’ottavo ingresso allo stadio, scomparendo dalla vita della donna che lo stava attendendo. Ma l’uomo non sapeva che la donna, seppure egli si fosse presentato rivelandosi l’opposto di ciò per cui si era spacciato e svelando così la menzogna e il raggiro, non sapeva che la donna vi avrebbe visto fragilità e tenerezza, e quindi amore. La donna avrebbe perdonato l’uomo. In fondo, la donna non era mai stata amata prima, a stento desiderata. Se l’uomo l’aveva ingannata era perché, in qualche modo, la desiderava. Alla donna sarebbe bastato sapere questo. Già. Mi piacque pensare a quell’idea. Ma si trattava soltanto di un insetto ch’era finito tra i capelli di una donna.

Ponderai l’idea di rimuoverle lo scarabeo giapponese dai capelli. Ella si voltò. Ne scorsi lo sguardo e gli occhi, e capii. Era sola e spaesata. Non era triste, ma qualcosa la turbava. Capii che nessuno l’avrebbe raggiunta, ed era rivolta al muro e ai cancelli dell’ingresso perché le davano conforto in una situazione a lei evidentemente non familiare. Era ciò che anch’io avevo fatto, sebbene con atteggiamento più naturale. Ponderai nuovamente l’idea di rimuoverle l’insetto dai capelli. Non so perché non lo feci e basta. Mentre io ponderavo, la donna si girò.

– Si entra da qui? – mi domandò in inglese. Le uscì un filo di voce.

– Sì, – risposi, – da questo cancello. Questo è l’ottavo ingresso. Ha anche lei l’ottavo?

– Ho il nono.

– Allora entra da lì.

– Bene, grazie.

– Di dov’è? – le domandai. – Abita in Italia?

– No, vengo dall’Israele.

– Dove? – A stento la sentivo.

– Israele.

– Dall’Israele!

– Sì.

– Ed è venuta in Italia appositamente per il concerto?

– Sì.

– Caspita. Dev’essere stato un lungo viaggio.

– Già, molto lungo –. Non era di tante parole. D’altronde io ero uno sconosciuto qualsiasi.

– Sarà un bel concerto.

La donna sorrise, collo sguardo languido e gli occhi che in un altro contesto avrei giurato essere prossimi al pianto.

– Ha già il biglietto? – mi domandò.

– Sì, – risposi, – mi è stato consegnato prima del concerto. Prima di oggi, intendo.

– Io devo ritirarlo qui. Andrò a chiedere come fare.

– Credo ci sia da fare quella fila. Lì – vede? –, «ritiro biglietti».

– Ci andrò, grazie.

– Prego.

La guardai allontanarsi. Avvicinò un addetto alla sicurezza cui chiese qualcosa. Questi le rispose indicando lo sportello per il ritiro dei biglietti. La donna affrettò il passo scomparendo nella folla.

Sentii fame. Guardai l’orologio. Era trascorsa quasi un’ora e mezza da quando mi ero mosso da piazza Duomo. Dovevo ammazzare ancora due ore e mezza prima dell’apertura dei cancelli, alle quattro, ma non mi seccava affatto. Cacciai dallo zaino due quarti di frittata di maccheroni, una mela e una fetta di ciambellone. Mangiai poggiato alla transenna; poi accartocciai la plastica e l’alluminio ricacciandoli nello zaino e seguitai a guardare il viavai di gente nel giorno che cresceva.

Questo è un buon momento per condurre un esperimento mentale. Qualora non sia di tuo interesse, procedi al paragrafo successivo. Non v’è nulla di male nel saltare righe, paragrafi o capitoli interi quando è lo stesso scrittore a suggerirlo, oppure quando lo scrittore è un pessimo scrittore. Nel primo caso è un diritto, nel secondo è un dovere.

Se stai leggendo ancora, immagina di essere prelevato colla forza e di essere rinchiuso in una stanza vuota, o pressoché tale – non ha importanza. Non ne conosci il motivo. Ciò che sai, che ti viene detto, è che hai perduto tutto e che d’ora in avanti non potrai tornare alla vita precedente né comunicare con alcuno, se non a una condizione. Ti verrà restituita la libertà a patto di rivelare che cosa ti è rimasto. A patto di rivelare ciò che in quella situazione è ancora in tuo possesso, ed è tale perché non può esserti portato via, né colla forza né col tempo né colla morte. Né colla morte. Non hai modo di mentire. Una volta risposto, ti viene domandato se ciò che hai rivelato – avendo rivelato qualcosa – è bastevole ad affrontare psicologicamente la vita. Se è sufficiente e se è necessario. L’esperimento finisce qui. Lo chiamo «esperimento Chazelle», perché lo pensai la prima volta dopo aver visto la pellicola La La Land, nel 2017. Damien S. Chazelle ne fu sceneggiatore e regista. Io ritengo che per affidare un senso del tutto umano e terreno alla vita sia doveroso essere in grado di rivelare qualcosa, e che questo qualcosa debba conferire la facoltà di rispondere affermativamente al quesito finale.

 

IV

 

Passarono le quattro e pettorine gialle o arancioni cominciarono ad allestire i controlli. A ogni tavolo corrispose un bidone nero per gli oggetti non amessi. Gli appuntati aiutarono nel trascinare via le transenne. C’era un gran caldo. Non c’erano molte persone; il grosso si sarebbe riversato nello stadio a ridosso dell’inizio del concerto.

All’ingresso dove attendevo si formò una fila scomposta di volti placidi, come ne ho viste d’estate all’esterno delle gelaterie. Non ebbi fretta di muovermi – borsa, tavolo, bottiglietta, bidone –, non ebbi voglia di muovermi. Come quando andavamo al mare a Pietragrande e stavamo nella casa di Montauro, e dopo pranzo noi bambini dormivamo col ronzio dell’aria condizionata, e poi con metà faccia nel cuscino io guardavo dalla finestra mio padre o mia madre o mia nonna passare con un costume indosso che non era lo stesso della mattina, e allora saremmo scesi al mare nel pomeriggio e dovevo alzarmi e mettere il costume e non mi andava di alzarmi e di mettere il costume, ma nessuno mi aveva chiamato e non c’era fretta; e poi scendevamo al mare e la sera andavamo a Soverato a mangiare la pizza al San Giovanni e poi il gelato al Sottozero – la nocciola del Sottozero, quando stava di fronte all’albergo Gli Ulivi – o da Morè – la brioscia sempre a parte – e a passeggiare sul lungomare e a fare un giro alle giostre, e quanto mi piaceva il Don Pedro, il ristorante che stava all’inizio delle giostre prima del veliero dei pirati, e quanto mi piaceva tutto questo e quanto non mi andava di alzarmi e di mettere il costume e quanto era bello andare al mare.

Sulla transenna alla mia sinistra si affacciò una ragazza. La guardai di sfuggita. Mi restituì lo sguardo. Aveva dei tratti che mi parvero amerindi – viso ovale, largo, fronte spaziosa, occhi andini quasi a mandorla, naso lungo e schiacciato come un glifo maia, carnagione bruna, capelli lisci e nerissimi. Era davvero carina. Indossava maglia nera dei Guns N’ Roses, blugginsi aderenti e stivaletti neri. Pensai che, avessi indossato io quei ginsi in quel caldo, me li sarei strappati di dosso. Pensai che forse la ragazza aveva indossato quei ginsi perché si sentiva a suo agio colle gambe coperte, perché forse si sentiva sicura colle gambe coperte, o perché forse si vergognava delle sue gambe scoperte. Pensai che forse la ragazza aveva indossato quei ginsi perché aveva voluto indossare quei ginsi.

La fila si fece più lunga e compatta. Raccolsi lo zaino e mi accodai. Xóchitl mi seguì. Xóchitl era la ragazza. Non ne conobbi il vero nome prima di sera, dunque è così che ora la chiamerò.

Xóchitl è l’adattamento spagnolo del termine che in lingua naua significa “fiore”, pronunciato all’incirca sciócitl, col tl tipico degl’idiomi mesoamericani e che in Europa puoi udire in bocca agl’islandesi, come in fjall che significa “montagna”: pronuncia la t e falla seguire da una l emessa col solo fiato, senza vibrazione delle corde vocali – il suono ch’è una comune lisca della s. La cempasúchil – la puzzola, Tagetes erecta L. –, nota come flor de muertos, conserva nel nome il termine xōchitl. Il nome spagnolo della pianta originaria di Messico e Guatemala deriva dal naua cempōhualxōchitl, letteralmente “venti fiori” e per estensione “molti fiori”. Nella redazione del Codice fiorentino, il missionario francescano Bernardino de Sahagún così scrisse tra il 1540 e il 1585 nella sua Historia general de las cosas de Nueva España:

 

«Questi fiori che si chiamano cempoalxóchitl sono gialli, profumati e larghi e belli, e tali nascono spontanei, mentre altri li coltivano negli orti; sono di due tipi: alcuni che chiamano cempoalxóchitl femmine e sono grandi e belli; gli altri li chiamano cempoalxóchitl maschi e non sono altrettanto belli né altrettanto grandi».

 

Frate Bernardino inchiostrò la descrizione come didascalia alla tavola botanica. Era il sedicesimo secolo. Pare scritta ieri.

Comunque, Xóchitl mi seguì. Mi parve inusuale che una simile ragazza fosse sola, eppure se ne stava alle mie spalle col biglietto in mano avanzando man mano colla fila. Non che vi fosse qualcosa che le impedisse di starsene da sola lì al concerto. Mi parve soltanto inusuale. Magari si sarebbe incontrata con qualcuno una volta dentro, con un’amica o chessoìo.

Giunse il mio turno e mi feci avanti. Poggiai lo zaino sul tavolo e lo aprii di fronte all’uomo colla pettorina gialla e tirai fuori due bottigliette d’acqua.

– Questa è da settantacinque, – disse.

– Sì.

– Va bene –. Me le restituì entrambe senza tappo.

– Questa la lascio, – dissi, – può gettarla –. Spinsi indietro la bottiglietta da mezzo litro quasi vuota. L’uomo la prese e la scostò accanto a un’altra semivuota.

Vidi Xóchitl oltrepassare i tornelli. In fila mi era rimasta dietro, ma si era diretta al secondo tavolo disponibile e mi aveva preceduto. Non portava zaino né borsa; le controllarono le sole tasche dei blugginsi aderenti.

Superai i tornelli e mi si erse di fronte tutto il cemento grigio su nel cielo azzurro. Il cielo ch’era terso e azzurro e pulitissimo. A destra e a sinistra salivano due dei quattro piloni coi camminamenti a spirale e mi diressi verso quello di sinistra. L’ascesa fu lentissima, il panorama mozzafiato ma squallido. A ogni giro vedevi Milano espandersi, vedevi l’orizzonte rigurgitare altro cemento e partorire altri edifici. In estrema lontananza, la montagna, cianotica per la massa d’aria nel mezzo.

Camminavo accosto al muro cilindrico così da percorrere meno salita possibile. In capo a cinque o sei avvitamenti recuperai due uomini che avevo scorto già imboccare il camminamento; pochi metri più avanti, un quarto di giro più in alto, camminava Xóchitl. Si era dileguata oltre i tornelli e adesso era ancora una volta non lontana da me. Affrettai il passo e superai i due uomini, e fui accanto alla ragazza. Seguitai nel rivolgermi al panorama, ma in realtà era lei che guardavo.

– Non si arriva più, – dissi. Come aveva fatto metri più in basso, Xóchitl mi restituì lo sguardo. Sorrise e seppi che mi aveva riconosciuto.

Io non dissi altro ed ella non parlò. A ogni nuovo avvitamento ci alternammo nel ribadire la lunghezza della salita, che davvero pareva non finire. Un sorriso, un sospiro.

Lo stadio si aperse all’improvviso. L’arena immensa puntinata di plastica sgargiante. Mi ricordò una costruzione di mattoncini LEGO. Rimasi alcuni istanti a osservare le gradinate interminabili e il campo e il palco in allestimento lontanissimo e perfettamente visibile e la sola striscia di cielo intrappolata nel cemento e invasa dagli edifici che svettavano sull’orizzonte. Lessi il biglietto e cercai il posto, e mi sedetti. Xóchitl non c’era.

Non la rividi finché non mi guardai attorno. Avrebbe potuto essere ovunque, finire chissà dove, ma era lì. Una dozzina di gradoni più in alto alla mia destra. Fissai la ragazza non far nulla, gli occhi nel vuoto e le mani tra le cosce. Era lì, sola e isolata. Nessuno le fu affianco, nessuno di fronte, nessuno alle spalle, ed ella non attese nessuno e nessuno cercò lei. Io fissai la ragazza; ella non mi vide. Io ero però arrivato sin lì per il concerto.

 

V

 

Il concerto dei Guns N’ Roses venne aperto dai Dirty Honey e da Gary Clark Jr.; iniziò alle otto in punto e alle undici e rotti guadagnai l’uscita dello stadio.

La cattedrale di cemento espulse da ogni pertugio uomini e donne in un deflusso costante, che a torrenti si riversò nel piazzale d’asfalto. Nessuno più badò agli ambulanti di accessori o di birra e panini, nessuno più vi fece la spola dalle ringhiere. Calò la notte e i furgoncini si evolsero, rivestendo un ruolo nuovo: nel piazzale, ai margini e nel mezzo, tracciarono vie luminose, guidando l’esodo verso la strada per affidarlo ai lampioni e alle sirene di volanti e cellulari.

Mi ritrovai nella calca a camminare sul marciapiede. Ebbi la sensazione che per quelle poche centinaia di metri fossi stato trascinato, preceduto dalle stesse schiene e seguito dalle stesse teste. Ebbi la sensazione di soffocare.

Avevo oltrepassato la folla schiacciata contro l’ingresso del metrò di San Siro Ippodromo, i cui cancelli venivano aperti a intervalli scaglionando le persone. Me ne tenni lontano poiché non avevo preventivamente acquistato il titolo per la tratta di ritorno e temetti che, immerso nella folla, avrei raggiunto i cancelli ancor prima di averlo ottenuto. L’applicazione sul telefono preposta non rispondeva e mi maledissi per non aver previsto la situazione. Continuai a camminare nell’irragionevole speranza di giungere alla stazione successiva, magari quella da cui ero salito la mattina. Al buio e in un crocicchio di strade inesplorate, ne ignoravo tuttavia l’ubicazione. Fu evidente che la calca andava disperdendosi, e mi fermai. L’applicazione non rispondeva. Erano trascorse le undici e mezza e tornai sui miei passi.

Mi unii al rivolo umano che risaliva la corrente e ch’era andato ingrossandosi negli ultimi cinquanta metri in direzione opposta. Camminai e camminai ancora e passai dagli stessi punti e non li riconobbi. La stazione emerse dal fondo del buio, dietro il bagliore dei lampioni. La folla era lì schiacciata, imbottigliata dai tornelli inattivi e rimpinguata ancora e ancora da uomini e donne che venivano depositati come ciottoli dalla risacca. Guardai i cancelli serrati attraverso le feritoie di ghisa scura dal lato dell’edificio che dava sulla strada. In quel momento la porta si aprì. La porta laterale antipanico, il cui rivestimento in ghisa la mimetizzava nelle inferriate, si aprì. Qualcuno l’aprì dall’interno. Corsi verso la lama di luce fredda. Lo spiraglio risucchiò decine di persone che si gettarono nella stazione. Varcai la soglia e fui dentro.

Tutti corsero giù per le scale e io non sapevo dove andare e li seguii, e poi mi fermai in cima alle scale e mi voltai verso la folla schiacciata dietro i cancelli e anche quelle erano persone e le guardai ed esse guardarono me e mi sentii in colpa, e poi altri corsero giù per le scale e mi sentii imprudente e mi voltai di nuovo e scesi le scale.

Non seppi ancora dove stessi andando, ma non ve ne fu bisogno – entrare nella stazione del metrò, accodarsi alle persone che vanno di fretta, scendere le scale saltellando sui gradini senza tenersi al corrimano: i treni non possono essere lontani. Mi rammentai allora del titolo di viaggio. Tenevo ancora il telefono in mano. Lo accesi e vidi che l’applicazione era tornata a funzionare; acquistai il ritorno e lo convalidai. Fu soltanto questione di tempo; avrei potuto accalcarmi anch’io all’ingresso garantendomi il passaggio ai tornelli, piuttosto che affidarmi alla misericordia di uno sconosciuto. Ma ormai ero dentro; volevo soltanto tornare a casa.

Cacciai il telefono in tasca e presi a sinistra, scendendo la seconda rampa di scale, e la vidi. Mi fu di fronte. I lisci capelli corvini, la maglia nera, i blugginsi aderenti, gli stivaletti neri. Xóchitl mi fu di fronte; anch’ella scendeva, precedendomi di qualche gradino.

Era davvero Xóchitl? Certo ch’è Xóchitl; chi altri dovrebbe essere? Possibile che dopo averla incontrata all’ingresso dello stadio, averla perduta oltre i tornelli, averla recuperata salendo il pilone a spirale, dopo averla perduta nuovamente fra le gradinate, averla avvistata nella folla e dopo essermene disinteressato durante il concerto e una volta terminato, possibile ch’era davvero Xóchitl? Possibile che in un così breve lasso di tempo il passato recente mi fosse stato perdonato? Non pesasse sul presente? Valesse così compassionevolmente e rapidamente come esperienza e non già come rimpianto? Certo ch’è Xóchitl; chi altri dovrebbe essere? Mi sentii come quando ritieni improbabile che qualcosa accada veramente, e tanto minore è la probabilità che l’evento si verifichi, quanto aizzato è il coraggio che la cosa t’infonde di sperare romanticamente che accada, di figurarti scenari dove sempre sei il protagonista, eroe o vittima, e dove prevalgono le tue ragioni, giacché sole a essere chiamate in causa; ma poi qualcosa accade e pensi che non sia mai esistita alcuna probabilità e che le cose semplicemente accadono o non accadono e che il mondo è sempre andato avanti così, e all’inizio ti senti precipitare nel vuoto che tu stesso hai lasciato immaginando vite di finzione, invece di riempirlo pianificando per tempo gli unici due scenari possibili, l’essere e il non essere delle cose; poi torni in te e rammenti – o ti racconti – di aver in fondo covato la speranza, e ti sforzi di lasciarti pervadere da questa in uno slancio drammatico talmente innaturale che ti sembra di osservare la storia di te stesso da lontano – uno spettatore seduto a metà platea che, appoggiato allo schienale, gambe accavallate e mento tra pollice e indice, giudica la tragedia in scena dall’alto della sua moralità, apparentemente immune dalla catarsi che dall’uscita del teatro fino a quando più tardi prenderà sonno nel suo letto seguiterà nel tormentarlo e nel farlo dubitare della propria integrità –, visione che paradossalmente ti riscatta quale essere pensante, e finisci allora per fidarti dell’istinto e ti convinci per l’ennesima volta e – ti dici – una volta per tutte che questo, questo significa vivere e che il resto è soltanto inetta esistenza. Certo ch’è Xóchitl; chi altri dovrebbe essere?

In fondo alle scale la ragazza prese a sinistra e io feci lo stesso; il metrò verso casa sarebbe transitato da quel lato. Lungo il binario veniva diffusa luce bianca e fredda e artificiale, come di notte nelle corsie degli ospedali. Mi voltai e trovai Xóchitl lì di fianco. Feci un passo verso il bordo della banchina e per la terza volta in quella giornata la ragazza mi restituì lo sguardo. Sorrise, e io le sorrisi.

– Ciao, – feci.

– Ciao.

– È da qui che si torna indietro, giusto? – le domandai.

– Sissì, da qui, – disse Xóchitl. – L’altro va allo stadio.

– Perfetto, grazie –. Le offersi la mano. – Io sono Livio.

– Ana, – rispose stringendomela.

– Ana?

– Sì, Ana. Una enne sola.

– Scusami, – dissi. – Immagino che lo ripeti ogni volta.

– Figurati, ci sono abituata. Mi chiamo “Ana con una enne sola”.

– Di dove sei?

– Sono boliviana.

– Boliviana di dove?

– Potosí.

– Potosí, la miniera? – feci. – Quella Potosí?

– Sì, – disse, – la miniera! Come lo sai?

– Ho appena letto un libro sui conquistadores e i pirati dei Caraibi –. Storia della pirateria, o in originale Under the Black Flag, di David Cordingly. Un eccellente resoconto. – A un certo punto menzionava l’argento di Potosí.

Sorrise. – Tu sei di Milano?

– No, – risposi, – lavoro in provincia, ma sono di Gurguri, un borgo in Sabina. Non lontano da Roma.

– Che lavoro fai?

– Ricercatore. Sono biologo computazionale all’istituto Pietas.

– Sembra complicato.

– Meno di quanto sembri. Tu sei qui per studio?

– Sì, – rispose, – studio architettura al Politecnico.

– Il tuo sembra più complicato del mio –. Ana rise. – Comunque parli l’italiano perfettamente –. Potei notare l’influsso spagnolo nella sua parlata soltanto perché mi aveva detto di essere sudamericana.

– Anche tu non sei niente male –. Risi a mia volta. – Mia madre è di origini italiane. In famiglia lo parliamo.

– È per questo che sei venuta qui a studiare?

– Anche per questo, sì.

Esitai un momento. – Allora? Ti è piaciuto il concerto?

– Oh, sì! – fece Ana. – È stato stupendo, madre mía.

– Quali canzoni ti sono piaciute di più?

– Di più, November Rain e Knockin’ On Heaven’s Door. Ho ancora la pelle d’oca.

Knockin’ On Heaven’s Door è stata davvero stupenda, – dissi. – Sarà durata un quarto d’ora, ma avrei voluto che non fosse dovuta finire.

– È durata così tanto?

– È durata tantissimo!

– Non me ne sono neanche accorta –. Ridemmo.

Le porte delle barriere trasparenti si aprirono sul treno in sosta. Entrammo e prendemmo posto l’una di fronte all’altro.

Adesso Xóchitl era lì. Ana era lì. Le sorrisi ed ella mi sorrise. Era con me. L’avevo incontrata e l’avevo perduta e l’avevo incontrata di nuovo e l’avevo perduta di nuovo. Adesso era lì con me. Il metrò accelerava e frenava, e io pensai a quando l’avrei perduta per l’ennesima volta. Pensai a lei, alla ragazza che mi stava di fronte e mi sorrideva; pensai ad Ana. Mi accorsi di quanto bello e pericoloso fosse pensare veramente a qualcuno con cui si condivide pressoché nulla. E nulla sapevo di lei, tantomeno dove fosse diretta quella notte. Sapevo soltanto dove sarebbe terminata la mia corsa, quando senza dubbio avrei perduto la ragazza per l’ennesima volta.

Il metrò accelerava e frenava. Perché avrei dovuto perderla per l’ennesima volta? Il metrò accelerava e frenava. Perché sarei dovuto rimanere a guardare per l’ennesima volta? Cacciai dallo zaino il portafogli e da esso un pezzo di carta e una matita appositamente temperata affinché entrasse nel portamonete. Scrissi il mio numero di telefono. Guardai le fermate e la successiva sarebbe stata la mia. Mi alzai e guadagnai le porte, accosto ad Ana.

– Scendi qui? – mi domandò.

– Sì, – risposi. Esitai un istante prima di porgerle il biglietto piegato.

– Grazie, – disse. Le sorrisi.

– Ciao, Ana.

– Ciao.

Discesi dal treno e cambiai linea, poi attraversai piazza Duomo deserta e presi l’ultima o la penultima corsa sulla tranvia verso Bozzago. Percorsi a piedi l’ultimo chilometro, arrivai a casa e mi sedetti sotto il getto caldo della doccia ch’era già passata l’una e mezza.

 

VI

 

Mi svegliai stanco ma di buon umore. Mi lavai con acqua fredda, mi vestii e alle otto scesi al caffè per la colazione. Mentre attendevo il latte macchiato avvicinai il quotidiano sul bancone e lessi la cronaca locale. «Milano, metropolitana bloccata: ragazza si getta sui binari». Aprii la pagina.

 

«Una ragazza di ventitré anni si è gettata sui binari ed è stata travolta da un treno della metropolitana alla stazione Garibaldi di Milano, nella notte tra domenica e lunedì poco dopo mezzanotte e mezza. Sul posto sono arrivati vigili del fuoco e personale del 118, ma per lei non c’è stato nulla da fare. La ragazza tornava dal concerto dei Guns N’ Roses tenutosi nello stadio di San Siro domenica sera».

 

In quel momento realizzai di essere uscito col telefono spento. Lo accesi, e nei pochi istanti in cui dall’etere venivano recuperate le notifiche intasatesi durante la notte, avvertii l’insorgere dell’emicrania. Arrivò un messaggio da un numero non registrato: «Ciao, Livio. Sono Ana». Rabbrividii. Non ebbi il tempo di essere felice che la ragazza avesse letto il biglietto e mi avesse scritto. «Ciao, Livio. Sono Ana. Sarebbe stato bello conoscerti. Mi dispiace». Mi dispiace di che cosa? Di che cosa le dispiaceva? Quando mi aveva scritto? L’orario riportato era quello corrente poiché il messaggio era stato appena recapitato, sicché non era attendibile. E se mi aveva scritto durante la notte? Perché sarebbe stato bello? Perché non poteva essere bello? Di che cosa le dispiaceva? Di che cosa? – dannazione. Il mal di testa cominciò ad aumentare e a inchiodarmi le tempie.

Aprii le notizie sul telefono e cercai. Lessi:

 

«Milano. Dramma intorno a mezzanotte e mezza tra domenica e lunedì in metropolitana. Una studentessa si è tolta la vita gettandosi sotto un treno alla stazione Garibaldi. Secondo quanto riportato, il conducente non è riuscito a evitare l’impatto nonostante la brusca frenata, che non ha fatto riportare feriti tra i passeggeri. La suicida, Ana Gómez Lalanda, boliviana di ventitré anni, si trovava in Italia per meriti accademici e frequentava il corso di laurea in architettura presso il Politecnico di Milano. Stamani gli studenti e i colleghi l’hanno ricordata così. Vedi foto».

 

Seguiva la fotografia della classe di architettura dell’anno accademico in corso. Ana accovacciata in prima fila sulla sinistra. Nel momento in cui venne scattata la fotografia molti studenti erano stati colti mentre parlavano, colla bocca aperta, richiamati all’ultimo momento da chi era dietro l’obiettivo. Ana guardava diritto e stava sorridendo.

Il dolore alla testa si fece lancinante. Mi sedetti. Era morta. Era davvero morta? Forse non era davvero morta. Studentessa si toglie la vita. L’avevo appena conosciuta. Com’era possibile che l’avessi appena conosciuta e fosse morta? Sotto un treno. Com’è possibile che una persona muoia così? Così velocemente? Senza che nessuno se ne accorga? L’impatto. Non si può morire così. Non si può morire da soli. Senza dire nulla, senza che qualcuno dica nulla. Senza che qualcuno gridi, pianga. La suicida. Mi tenni le tempie e vi premetti. Non si può morire così. Ma era morta. Era morta davvero. Travolta da un treno. Eppure era con me, io me la ricordavo, io ch’ero lì, al bancone del caffè ad aspettare il latte macchiato, me la ricordavo. Era viva. Certo ch’era viva. La vedevo muoversi, camminare, la vedevo sorridere. La sentivo parlare. La sua voce. La sua voce era lì, la sentivo. Se vedi, senti, se ricordi qualcuno, non può essere morto. Per lei nulla da fare. Lei chi? Chi aveva detto che dovesse trattarsi di lei? Ana Gómez Lalanda. Poteva anche non trattarsi di lei. Boliviana, ventitré anni, Potosí. Sì, poteva anche non essere lei. Non era detto. Esistono tanti omonimi in giro per il mondo. Architettura presso il Politecnico, studio architettura al Politecnico. A volte accadono coincidenze improbabili. Era forse la prima volta? Una coincidenza incredibile. Concerto dei Guns N’ Roses, ti è piaciuto il concerto? Non poteva essere lei. Non era morta davvero. Non si può morire così. Me la ricordavo. Non poteva essere lei. Vedi foto. Me la ricordavo e non poteva essere lei. Io ero lì ed ella era con me. Sarebbe stato bello conoscerti, mi dispiace. Di che cosa le dispiaceva? Perché non poteva essere bello?

Perché era morta. Morta. Perché si era tolta la vita. Perché si era gettata sotto un treno e quando ti getti sotto un treno non puoi non morire. Si era suicidata. Perché? Si era suicidata. Sorrideva. Era contenta. L’era piaciuto il concerto, aveva detto ch’era stato stupendo. Madre mía. Perché? Aveva ancora la pelle d’oca. L’erano piaciute November Rain e Knockin’ On Heaven’s Door. Non si era accorta ch’era durata un quarto d’ora. Non se n’era neanche accorta. Perché? Sorrideva. Rideva. Perché? Avrei potuto fare qualcosa? Che cosa? Avrei potuto aspettarla, scendere dal metrò con lei. Avrei potuto accompagnarla a casa. Avremmo passeggiato e avremmo parlato del concerto e di altre cose e avremmo scherzato e avremmo riso. Avevamo riso. Rideva. Perché? Avrei potuto dirglielo, il numero, avrei potuto dirle di scrivermi e di chiamarmi e di darmi il suo, di telefono, così l’avrei chiamata e mi avrebbe aspettato, avrebbe aspettato che la chiamassi e le dicessi tante cose, se le fosse piaciuto il concerto e quali canzoni l’erano piaciute di più. Avrebbe aspettato. Non l’avrebbe fatto. Perché? Perché l’aveva fatto? Era colpa mia? Avrei potuto fare qualcosa. Avrei dovuto capirlo. Avrei dovuto capirlo da come guardava, come parlava, come sorrideva, come rideva. Rideva. Avrei dovuto capirlo. Avrei potuto fare qualcosa? Come poteva essere colpa mia? Io non c’ero. Avrei potuto esserci. Avrei dovuto esserci. Avrei dovuto esserci? Si era suicidata. Era morta. Ana era morta. Ana non c’era più. Io l’avevo conosciuta ed ella non c’era più. Né più mai l’avrei incontrata né più mai l’avrei perduta né più mai mi avrebbe restituito lo sguardo. Non c’era più. Ana non c’era più. Xóchitl non c’era più.

Mi sovvenne la canzone El tercio de los sueños di Andrés Calamaro, cantautore argentino. Ne riporto il testo; alla musica dovrai provvedere tu che leggi. È facilmente reperibile.

 

«Tenías el vestido más horrible de todo el tendido / y trataba de llamarte la atención de algún modo oportuno, / pero tú solo tenías ojos para el joven matador de toros; / el tercio de los sueños ya se había terminado para mí. / No me digas que es muy pronto, / son las siete de la tarde aquí en España. / No me extraña que seas así / y te rías de mí otra vez, / no me tengas piedad porque soy de verdad y me puede hacer mal. / Algunas veces vengo a ver los toros muy tranquilamente; / me siento en el tendido y no me falta un farias entre los dientes, / pero aquella tarde resultó distinta a cualquier otro San Isidro; / el tercio de los sueños se había terminado para mí. / Es que tú no te das cuenta, / tu mirada inocente no me engaña. / No me extraña que seas así / y te quedes conmigo otra vez; / si hoy me dices que sí bajo al ruedo por ti a matar a la res. / A veces siento que me hago viejo muy rápidamente / desde que colgué mis años salvajes en un clavo en tu frente. / ¿Por qué aquella tarde resultó distinta a cualquier otro San Isidro? / El tercio de los sueños tiene dueño, siempre suele ser así. / Hay un hombre que recuerda / y aunque la memoria muerde y no le engaña, / en la tela de araña cayó y la mantis ya se lo comió, / no le tuvo piedad y después de jugar se lo desayunó».

 

Il mal di testa andò affievolendosi. Bevvi il latte macchiato, pagai e uscii dal caffè. Sulla soglia rammentai di aver lasciato il giornale aperto sul bancone. Tornai indietro, lo chiusi lisciandolo e me ne andai.

Racconto di Mattia Carvetta