Si dice che lavorare in libreria sia rilassante: sempre immersi in un’atmosfera magica, l’unica fatica di un libraio è quella di leggere libri, consigliare libri o, alla peggio, sistemare libri.

Pura science fiction. Lavorare in libreria è snervante. Tra litigi con i corrieri, centinaia di libri da movimentare ogni giorno e discussioni con clienti spazientiti che hanno più fretta di un pensionato alle poste, l’unica cosa che un libraio non vede l’ora di fare è tornare a casa.

La magia invece esiste. Quella riesce a scovarti e a metterti alla prova, quando meno te lo aspetti.

 

Non mangio di mercoledì

 

Percepisco un odore che non sentivo da anni: un misto di olio motore, segatura, polvere e fusa. Poi nelle mie orecchie irrompe un gorgheggio gattesco, simile a un gargarismo da soprano, e una piccola testa pelosa cozza contro la mia. Una sensazione familiare e malinconica che non provavo da tanto tempo.

Socchiudo gli occhi e avverto il freddo. Non vedo nulla, soltanto l’oscurità che mi circonda. Muovo il corpo contro la superficie dura e levigata. Sfrego i palmi su quelle che sembrano mattonelle, poi mi tocco il viso: è pieno di righe, come quando mi addormento a faccia in giù sul copriletto ricamato di mia nonna.

Mi siedo e aspetto che la vista si adatti all’oscurità. Il mio culo si sta trasformando in un blocco ghiacciato con una fessura nel mezzo. Una luce fredda trafigge il soffitto. Per un attimo riesco a scorgere i cartoni impilati a formare muri invalicabili. Poi di nuovo il buio.

La mia mente viaggia veloce mentre cerco di capire come mai sono ancora in libreria. Che ore sono? Premo lo schermo dello smartwatch e i segmenti lampeggiano sul quadrante digitale contorcendosi come vermi fosforescenti. Faccio scorrere il dito sullo schermo fino a trovare la funzionalità torcia e giro il polso per illuminare la mia prigione. Sì, sono in libreria, ma tutti questi pacchi? Poso la mano su uno dei loghi stampati sul fianco avana e spingo. I cartoni sembrano pieni, spero solo che non mi cadano in testa.

La luce azzurra saetta ancora sopra di me, zizzagando rapida a indicarmi la via. Un rumore di passi soffocati mi segue tamburellando sui cartoni. Mi volto, quasi perdo l’equilibrio per lo slancio, ma non vedo niente. Poi i segnali di uscita d’emergenza si accendono sfarfallando e una scia verde illumina dall’alto il corridoio infinito. Al posto del solito omino che corre, c’è un gatto che fugge sulle zampe posteriori. Sento il suono secco e granuloso di sassolini che cadono scrosciando. I passi si moltiplicano, sembrano ovunque. Il graffiare di un’orchestra di motoseghe mi riempie il cervello, insieme al rumore di porte chiuse da secoli che si aprono con un cigolio inquietante. Allungo il passo e i cartoni iniziano a oscillare. Corro. Inciampo. Mi rialzo spingendo mani e piedi sul pavimento mentre i muri collassano. Un quadrato di cartongesso mi sbarra la strada. Somiglia quasi a un’enorme gattaiola. Mi preparo all’impatto, ma l’attraverso facilmente.

***

La grandine mitraglia tettoie di plastica, o almeno è quello che sembra all’udito. La luce mi acceca. Mi sento spingere in avanti con piccoli colpi sui polpacci, come se le mie gambe fossero immerse in un torrente impetuoso di acqua pelosa. La corrente miagola lamentandosi. Mi sfrego gli occhi e vedo gatti dappertutto, e stanno piovendo croccantini da una botola aperta nel controsoffitto, proprio sopra l’insegna luminosa. Al di là della saracinesca chiusa, intravedo figure scure che si muovono senza toccare terra con i piedi; al posto degli occhi, solo buchi melmosi.

Mi giro per capire da dove sono sbucata e riconosco la porta del magazzino. Un grosso felino si erge maestoso sullo sgabello del punto informazioni. Mi avvicino incuriosita e lui mi fissa. È un enorme Maine Coon candido, con gli occhi cerchiati di nero. Pare indossare un paio di occhiali molto sbarazzini. Quando si accorge che sto allungando la mano per toccarlo, appiattisce le orecchie sulla testa e la sua coda inizia a frustare la pelle sintetica dello sgabello. Mi redarguisce con un miagolio basso e catarroso da fumatore incallito. «Giù le mani!» sembra dire. Poi di nuovo: «Non azzardarti a toccarmi.»

«Tu parli?» sono sbalordita.

«Anche tu parli» MC è infastidito. Sbatte le sue zampone sopra la scrivania, sulla quale è apparsa una strana tastiera con tasti simili a cuscinetti plantari felini, e inizia a scrivere. Stringe gli occhi, comincia a fare le fusa deliziato, si lecca la zampa destra passandola sui finti occhiali, poi preme un pulsante rosso più grande degli altri. Silenzio. Restiamo a fissarci per un lungo e imbarazzante momento.

MC abbassa lo sguardo impaziente sotto la scrivania dove c’è la stampante. Sospiro e premo il tasto del risparmio energetico per riavviarla. «Cosa ci faccio qui? È un sogno, vero?»

«Nella vita di un libraio si apre una finestra temporale, un’unica possibilità per provare le proprie capacità e risvegliare così i pieni poteri.»

Che sta dicendo? «Pieni poteri?»

«Sì, la capacità di trovare i libri senza dover controllare la disponibilità sul pc, l’abilità di blandire i clienti, il radar di affinità letteraria, ma soprattutto, una dose di inesauribile pazienza.»

Occhi e bocca mi formicolano di piacere. Avevo sentito parlare del Dono del libraio, ma credevo fosse solo una stupida leggenda metropolitana.

«E come posso risvegliare questi poteri?»

MC mi fissa socchiudendo gli occhi d’ambra. Dalla sua espressione tronfia, sembra abbia in mente qualcosa di diabolico. «Ho solo bisogno di un libro…» borbotta, poi salta silenziosamente sulla scrivania e avvicina il viso al mio. Mentre le vibrisse mi sfiorano facendomi solletico, lui mi annusa la faccia soffermandosi sulla fronte. «E di un tuo preziosissimo ricordo.»

Faccio un salto all’indietro. «Stai scherzando? Io non ti do proprio un bel niente!»

MC si lecca i baffi. «Allora vorrà dire che ti terrò qui insieme a quelli che, come te, si sono rifiutati di fare questo scambio. O che hanno fallito la ricerca» indica i gatti che si stanno azzuffando per i croccantini caduti dalla botola. MC è compiaciuto dalla mia angoscia. Come posso cedergli una delle mie preziose memorie? Ma se non lo assecondo, le perderò tutte in un istante, insieme al mio futuro.

La stampante tossisce fuori un foglio in un caldo sbuffo che puzza di toner e ferro da stiro. Il gatto posa una zampa sulla pagina croccante. «Quindi? Accetti la sfida?»

Strappo il foglio dalla sua presa. Dannato MC! «Certo, mica voglio diventare un gatto.»

Guardo la stampa che ho leggermente spiegazzato, incuriosita dalla copertina in bianco e nero: un disegno semplice di una ragazzina seduta di schiena su un campo in pendenza. Il viso è rivolto verso un sentiero che taglia il campo in una curva sinuosa, gli occhi sono nascosti dalla lunga frangia, il suo naso è una freccia che punta verso est. Scorro lo sguardo su titolo e autore: Non mangio di mercoledì, di Madame Quillpurr. Scuoto la testa, non ho memoria di questo libro. O forse sì… Mi sforzo e qualcosa striscia nella mia mente. La mia collega che ride. «Che nome pretenzioso!» dice, e si rigira un volumetto tra le mani. Pare quasi un quadernino. Sono passati almeno cinque anni da quando è entrato da noi e non lo abbiamo mai più rivisto. Sbucava fuori solo durante l’inventario, poi spariva di nuovo. Non lo troverò mai.

«Hai tre tentativi.»

«Cos—»

«Se fallirai, sarai Miao.»

Gatto del cazzo!

MC scende dalla scrivania. «Da dove vuoi cominciare?»

Riguardo il foglio, poi lo piego in quattro e lo metto in tasca. Avanzo veloce verso l’uscita. Esamino gli scaffali. Mi accorgo che sono isolati da un sottile strato di pellicola trasparente, non so se per proteggere i libri dai gatti o viceversa. Mi fermo davanti al settore Poesia e lo fisso. Il libro dovrebbe essere qui, ma se mi sbaglio? La pioggia di croccantini persiste, ma i gatti si sono fermati e mi scrutano attraverso gli occhi multicolori dei librai che non ce l’hanno fatta. Stringo la t-shirt sul petto, dove penzola il mio cartellino di riconoscimento con l’adesivo di un buffo gufo blu e rosso. Allungo la mano verso lo scaffale e qualcosa mi spinge verso di esso. Perdo l’equilibrio e lo attraverso cadendo.

***

Gocce di pioggia cadono come proiettili dal cielo. Non riesco a capire da dove provenga questo miagolio disperato. Esco dal cancello a passi bambini e mi avvicino ai cassonetti. Ti vedo, avviluppato nel cartone fradicio d’autunno, ti raccolgo e ti ficco sotto la felpa. Sento che tremi e ti aggrappi alla canottiera con le tue unghiette spesse una spina per cercare il calore della mia pelle, mentre corro per portarti al sicuro nella tua nuova casa. Alzo la maglia e ti stacco. Sotto le tue unghie, una scia di fili bianchi, come ragnatele. Ti seppellisco in un asciugamano e ti strofino, non importa niente se ti lamenti assordandomi. Ti verso il latte in un tappo da conserva. Tu ti ci tuffi con tutta la faccia e quasi affoghi. Ti preparo una cuccia di cartone con scampoli di lana soffice e ci metto anche una vecchia sveglia. Ho sentito che il rumore delle lancette ricordano il battito del cuore e non voglio che tu ti senta solo quando io non potrò stare con te. Ti fisso, la tua barba di latte mi fa sorridere. Invece di andare nella tua cuccia di cartone, ti muovi tracotante verso di me, ti nascondi con la codina ad antenna nell’asciugamano ancora umido e provi a fare fusa che ti vengono malissimo. Ti accarezzo la testina, provando subito un amore incondizionato.

Atterro sulle ginocchia. Il dolore è una scarica elettrica che parte dalle gambe e mi trafigge il cervello. Mi guardo attorno, gatti e croccantini sono spariti. E anche MC. La serranda è sollevata. Il corridoio del centro commerciale è un labirinto oscuro. Le ombre sembrano essere sparite.

Magari è stato tutto un sogno. Mi precipito fuori dalla libreria, non importa se l’allarme inizierà a risuonare lungo le mille gole del centro. Prima di uscire vedo con la coda dell’occhio che, al posto delle barriere antitaccheggio, ci sono due busti di poeti che mi osservano inorriditi, ma non hanno braccia per fermarmi.

Il pavimento cede sotto ai miei passi, soffice come budino. Le scarpe affondano; qualcosa si aggrappa ai miei jeans e mi trascina verso il basso. Grido annaspando cercando di tornare dentro al negozio, ma una barriera invisibile mi spinge via, sembra fatta dello stesso materiale che ricopriva gli scaffali. Martello la barriera e questa ondeggia con un suono elastico, come un grosso scudo di plexiglass. Braccia troppo forti mi trascinano via dalla porta. Qualcosa mi sta tirando i capelli. Sento la testa scattare all’indietro e la trachea inizia a fare male.

«A che ora aprite?»

«Lei lavora qui?»

«Posso solo fare una domanda?»

Non sono in grado di muovermi; nonostante tutto, continuo a lottare. Porto il mento al petto costringendomi a fissare le statue mentre gli esseri di ombra mi rimbambiscono con richieste sempre più irritanti.

«La poesia, fanciulla» implora uno dei due.

«Una qualsiasi, ché senza la salvezza è nulla.»

Cento mani sembrano strapparmi il corpo, e devo recitare una poesia? Io? Abbasso il capo sconfitta, ammettendo la mia ignoranza, poi dal nulla arriva una memoria che sa di merende di latte e pane con burro e zucchero.

«C’è un’ape—» il mio corpo s’illumina e le creature arretrano come scarafaggi infastiditi dalla luce. Le sculture mi sorridono incoraggiandomi.

«C’è un’ape che se posa

su un bottone de rosa:

lo succhia e se ne va…

tutto sommato, la felicità

è una piccola cosa»

Mi lascio cadere in avanti e finisco tra i busti, rannicchiata in posizione fetale. Ho l’affanno e il cuore mi scoppia di paura. Non è un sogno. Le sensazioni, il terrore, il dolore, sono così reali. Mi giro sulla schiena e mi accorgo che le statue mi esaminano severe. Uno sembra Bob Dylan, l’altro Terry Pratchett. Non riesco a trattenere una risata.

«Cos’è che ti ha spinta a fuggire?»

«Sei pazza? Potevi morire!»

Oh, no. Non le rime. «Come mai vi hanno messo qui all’ingresso?»

Bob e Terry si fissano fieri, gli occhi di marmo mandano un bagliore. «Siamo i guardiani che sbarrano il passo»

«Siamo vedette di verbo e di sasso»

«Le nostre armi son parole rimate»

«Poesie che allietano le nostre serate»

«Già, ma come fate a inventare tutte quelle poesie? Non vi stancate, non avete vuoti di memoria?»

I busti ridono all’unisono.

«Hai sentito la fanciulla che boria?»

«Parole di un’infante che non conosce vittoria»

«Noi di armi ne abbiamo un intero arsenale»

«Coraggio, scegli due libri da quello scaffale»

Giusto, lo scaffale. Mi avvicino e scorro titolo per titolo. Controllo che il libro non sia finito in un’intercapedine dietro la mensola. Nulla. Sento la stampa bruciare nella tasca con uno sfrigolio di cotone abbrustolito. La tiro fuori e vedo che si è annerita per un terzo. Dannazione, ma me lo aspettavo, no?

Scelgo due libri robusti. Trilussa, che mi ha appena salvato la vita, e Gioacchino Belli. Ora ci divertiremo a suon di stornelli. Oh no, le rime! «Beh? Cosa ci devo fare con questi?»

«Complimenti, hai proprio ottimi gusti!»

«Vedrai che spettacolo ti prepareremo, noi busti»

Le bocche si aprono in sincrono, e io inserisco i volumi come videocassette. Rimarrei ore a sentire Bob e Terry che proteggono la libreria a suon di sonetti romaneschi, ma ho un incarico da portare a termine. Mi volto e mi dirigo verso la seconda tappa, in fondo al negozio: il reparto Bambini.

Scelgo a caso uno degli scaffali e mi ci butto dentro.

***

«Gian!» quando ti chiamo, corri subito da me, annunciandoti con un miagolio vibrante. Salti sul dondolo e ti accovacci tra il mio corpo e i cuscini, poi mi colpisci con la tua testa e inizi il tuo concerto di fusa. Sai d’estate, di segatura e olio motore. Ti piace nasconderti nei macchinari di mio zio. Con una mano reggo il libro mentre l’altra è affondata nella tua pelliccia tigrata. I tuoi occhi verde oceano ammiccano al sole e si socchiudono. Vorrei stare così per sempre.

Apro gli occhi e l’espositore davanti a me si muove con onde orizzontali. I libri si appoggiano gli uni agli altri dondolandosi come su un’altalena. Alcuni volumi, spinti con troppa irruenza, scivolano giù dalle mensole, ma prima di cadere si trasformano in farfalle, uccellini, pipistrelli e volano per la libreria esplodendo in risate infantili, rincorrendosi fino a stancarsi. Ecco perché ogni mattina il settore è così in disordine. E io che ho sempre dato la colpa ai clienti.

Mi rimbocco le maniche e inizio a setacciare le scansie alla ricerca di Non mangio di mercoledì. Non appena sfioro i libri, questi si contorcono e ridacchiano come se gli stessi facendo solletico. Si muovono e cambiano continuamente posto, rendendo la mia ricerca pressoché impossibile. Sbuffo, si comportano proprio come bambini.

Ho un’idea. «Volete sentire una storia?»

I libri esplodono in un verso gioioso e saltano giù dai ripiani appollaiandosi un po’ sopra ai mobili giocattolo, un po’ per terra, lasciandomi lo spazio per esaminare le pareti. Vedo che alcuni libri giacciono svenuti sulle mensole. «C’era questa bambina che doveva ancora nascere, ma che adorava i ninja più di ogni altra cosa, così cercò di imparare i segreti di quell’arte prima di arrivare nella sua nuova famiglia.» Mi allungo e controllo i volumi inanimati. Come immaginavo, sono libri di un altro settore. «Arrivato il momento di decidere dove avrebbe voluto nascere, scelse un mondo pieno di unicorni, ma era così rosa e zuccheroso e tutti erano troppo impegnati a ridere e a sognare a occhi aperti per accorgersi di lei.» Sposto le scalette di legno sotto le ultime mensole per controllare che il libro non sia caduto lì dietro. Niente, solo una cicca di sigaretta, gatti di polvere e monete fuori corso. «La sua seconda scelta fu un mondo senza colori, dove le persone camminavano a testa bassa senza guardarsi negli occhi. La nebbia nascondeva tutto e le sue abilità di ninja erano del tutto sprecate.» Esamino la parete con i libri per i più grandi scorrendo titolo per titolo. «L’ultima scelta ricadde su un mondo pieno di vegetazione e luoghi nei quali nascondersi. C’erano tante persone e bambini che, come lei, avevano deciso di nascere su quel pianeta, ma mentre gli altri bambini trovavano facilmente i propri genitori, lei restò sola.» Scorro l’ultima fila e sento di nuovo quel bruciore ormai familiare. Controllo: il foglio si è annerito per due terzi. Mi appoggio allo scaffale. Mi viene da piangere.

«Questa storia non può finire così!» si lamentano i libri avvicinandosi a me. Scuoto il capo. «No. Certo che no. La bambina si rifugiò su un albero chiedendosi se avesse fatto bene a seguire la via dei ninja, visto che nessuno era riuscito a trovarla. Nello stesso momento, sentì un abbraccio forte, ma non vide chi fosse. “Per fortuna sei qui!” “È da tanto che ti cercavamo.” Così la piccola trovò finalmente la famiglia dei suoi sogni e da quel giorno vissero per sempre felici, contenti e ninja.»

I libri sonnecchiano pacifici. C’è una tale confusione, chissà cosa penserà chi ha il turno del mattino. Non ho tempo di rassettare, devo passare subito alla mia ultima scelta. Tentenno tra Narrativa e Saggistica, poi ho un’illuminazione. Senza indugiare oltre, mi butto nella sezione di Cucina, sparendo tra i tavoli.

***

Il giorno che sei sparito profuma di frittelle e insalata di patate con tanto aceto, cibo che adoro ma che non ho mai più voluto mangiare. Il giorno in cui hai cessato di esistere, non avevi ancora compiuto un anno. Il giorno che non hai più risposto al tuo nome, risalivo la collina verde di pioggia sull’autobus della scuola e d’un tratto ho notato uno straccio tigrato gettato nel fossato di fianco alla strada. Sono arrivata a casa. Ti ho chiamato mille volte ferendomi la gola con la mia rabbia e il mio dolore, ma non sei più tornato. Il giorno in cui sei morto, era un mercoledì.

Quando mi risveglio, mi accorgo di avere le mani appoggiate sulla faccia, le dita piene di lacrime. Tutto attorno a me profuma di cibo. Sembra uno street food festival. Dai libri si leva un vapore denso e i titoli vibrano sulle copertine come miraggi. Provo a spostarli per iniziare la mia ricerca, ma mi ustiono le mani. Sui palmi iniziano a fiorire le vesciche. Mi levo t-shirt e pantaloni e me li avvolgo sulle mani come guanti da forno. Rovescio i volumi a terra e un rumore assordante di stoviglie infrante riempie la libreria. Li spulcio uno a uno scottandomi la pelle nuda. Un tomo si apre su una zuppa di lenticchie. Il profumo invitante mi fa brontolare lo stomaco, ma devo compiere la missione prima che arrivi l’alba. Niente, neanche qui. Calcio i libri e lancio i miei vestiti bruciacchiati lontano. La stampa cade a terra, annerita per due terzi. Aspetto che diventi completamente nera, decretando così il mio fallimento, ma non succede niente. Trattengo il respiro, poi mi lancio sui mobili vuoti e li divido. Per terra, nascosto da strati di polvere, c’è quello che cercavo. Mi chino, lo afferro e la luce si spegne.

***

Miao.

Sfreccio in magazzino per evitare che i clienti mi fermino prima dell’inizio del turno. Butto giacca e borsa nell’armadietto e appunto il badge con il gufo blu e rosso sul petto. Non appena esco, una cliente mi immobilizza. È imponente, canuta e indossa un paio di occhiali neri alquanto sbarazzini. «La sua collega non riesce a trovare la copia di Non mangio di mercoledì. Sto cercando questo libro da anni, mi può aiutare? Sono un po’ disperata» aggiunge borbottando. La sua voce è roca e graffiante, figlia di poche chiacchiere e molto tabacco.

Sorrido senza sapere perché, avanzo a passo di danza verso il reparto Poesia ed estraggo il libro senza nemmeno guardare lo scaffale. Il gatto tigrato seduto di fianco alla ragazzina in copertina alleggerisce quel titolo pomposo, anche se fissandolo provo un’inspiegabile malinconia.

«Ma ha fatto così in fretta!» la cliente è estasiata, poi mi fissa stringendo gli occhi ambrati dietro le lenti. «Non è che per caso possiede il Dono del libraio?»

Alzo le spalle sorridendo, sorprendendomi di come la gente possa ancora credere a certe leggende.

Racconto di Daniela Battistini

Vincitore assoluto del Contest Stagionale “Risveglio” del 2024.