Il signor Westock gli stava davanti a battere a macchina, le dita tozze pestavano come martelli sui tastini.
Se si ingrossa ancora un po’, la prossima volta che si siede la sedia gli rimane tra le chiappe.
Adam, per contrappasso, batteva la suola della scarpa sul marmo del pavimento e tamburellava le dita sul bracciolo della poltrona, sempre più forte.
Westock gli lanciò un’occhiataccia e lui si limitò a sorridere.
«Ho annotato nella banca dati l’avvenuta esecuzione dell’incarico Case, signor Crane.» Per essere così fottutamente grosso, aveva una vocina nasale da impiegatucolo. Specie quando sottolineava le deficienze. «Comprese tutte le sue violazioni protocollari.»
Adam si passò un dito sul solco nero che gli spaccava il lato destro della faccia, perfettamente dritto dall’attaccatura dei capelli al mento. Sotto al polpastrello sentiva in rilievo i punti della sutura stonare con la pelle liscia. «Io andrei anche…»
«Mi vuole spiegare questa sua avversione per il Jabelokka, signor Crane?» Westock non si curò della sua frase e indicò il cappotto nero buttato sull’appendiabiti. Gli occhi color acciaio del direttore operativo tornarono su di lui. «Non lo aveva nemmeno quando ha chiuso la pratica Case.»
E ti pareva.
«Quel cazzo di affare pesa e tiene un caldo fottuto.» Ringhiò Adam, incrociando le braccia.
«Non li facciamo in pelle di chupacabra e li imbottiamo di ossa di sussurrante per divertimento.» Un lampo di irritazione attraversò il viso paffuto di Westock. «Quel cazzo di affare serve a proteggerla da…»
Che due coglioni.
Adam sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Estrasse la Walther PPK dalla fondina alla spalla e la appoggiò alla tempia. Tolse la sicura col pollice.
BLAM! BLAM! BLAM!
Non sentì nemmeno un pizzicorino, solo una familiare stretta calda alla base della nuca.
Si alzò e andò a passi pesanti verso la scrivania di Westock. Sputò ad uno ad uno i tre proiettili, perfettamente integri.
«Protezione?» Gli sorrise.
«Fare lo sbruffone non le servirà certo a dimenticare che ci sono cose, là fuori, che le possono fare parecchio male.» Westock lo fissò dritto negli occhi. «Anche senza ucciderla, signor Crane. Non faccia il bambino.»
Adam si irrigidì sentendo quell’ultima frase.
Rimase a fare a sguardo di ferro, anche se sapeva che con Westock era una partita persa. «Abbiamo finito.»
Si voltò e andò a prendere il Jabelokka.
«No, non abbiamo finito. Deve partire subito.» Westock aprì uno dei cassetti della scrivania.
«Per dove? Di nuovo Portsmouth?»
Il direttore tese il massiccio braccio e gli porse un fascicolo. «No. A casa.»
Adam grugnì. «I cari, vecchi fascicoli, eh?»
«A prova di fantasma informatico.» Ribattè acido il direttore.
Prese la cartelletta e la aprì. La foto di un signore sulla settantina avanzata, pelato, fece mancare un battito al suo cuore.
«Proprio lei viene a parlarmi di modernizzazione? Con quel ferrovecchio?» Westock si concesse una delle sue rare, amare risate, accennando col capo alla Walther nella fondina dell’agente. «Tutti gli altri usano ionizzatori, dispersori elettromagnetici, e lei preferisce fare “zero zero sette”.»
Adam non gli rispose. «Cos’è successo al professor Douglas?»
Il direttore si appoggiò allo schienale della sedia girevole, facendolo gemere. «Ectoplasmatica, grado Charlie.»
«Niente cazzate. Da quando mi mandate per un’ectoplasmatica?»
«Fa lo schizzinoso? Ricordi che è stato lei a venire a chiederci di essere utilizzato, signor Crane.» Il tono di Westock divenne pedante. «Ricorda? In tenebris, vigilis manemus.»
Adam tornò alla fotografia con un peso sul cuore.
Professore, cos’ha fatto?
A ripensare al passato quella cosa nel suo cervello ritornò a sibilare. No, non un sibilo. Un urlo, ma solo molto lontano. L’urlo di un bambino che…
Si morse la lingua per smettere di pensare.
Mai riaprire la scatola.
«E la Signora Rossa? Chi la segue?»
«Ci sono i tuoi amici. Ed Elton.»
Adam digrignò i denti. «Ci ho messo mesi a seguire le tracce attraverso mezza Europa…»
Westock lo interruppe alzando la mano. «Elton non è uno stupido. Saprà seguire le sue lineette.»
Crane lo guardò, guardò la foto. Tamburellò il tacco per terra e ripassò i denti dove si era morso, oramai più per abitudine che per altro. La lingua non aveva un graffio.
Glielo devo. Professore…
«Va bene. Ma dica a Elton di non fare cazzate, altrimenti lo uso come esca.»
Westock rise. Una risata ebete, da cartone animato. Si vedeva che non lo faceva spesso. «Buon viaggio, signor Crane.»
«Professor Douglas.» Adam si fermò sul vialetto, il Jabelokka buttato sulla spalla sinistra a coprire la pistola.
L’anziano ometto si fermò e voltò il capo verso di lui, appoggiandosi al tosaerba. Lo spense con il piede.
Il sole rovente si rifletteva sul cranio calvo, lucido di sudore, e sulle lenti degli occhiali.
Per un momento i suoi occhi chiari indugiarono sul giovane.
«Mi riconosce, professore?»
Santo cielo, signore, fa che non gli sia successo nulla di grave.
Winston Douglas si umettò le labbra con la lingua. «Adam Crane.» Mormorò. La sua bocca si stirò in un sorriso. «Non sono mica così vecchio, ragazzo mio.»
Un’onda di sollievo investì lo stomaco di Adam, sciogliendo i nodi che vi aveva fatto la tensione. La voce di Douglas era diversa da come la ricordava, più stanca, più trascinata. Ma era la sua, l’inconfondibile voce del Professor Pile, come lo chiamavano al college.
Si stupì nel non vederlo con l’immancabile felpa di pile che gli era valsa quel soprannome. Cosa più unica che rara, stava con una camicia a maniche corte quadrettata, bianca e gialla.
Incredibile, dovrei fargli una foto. Si, certo, e poi a chi la manderei?
«Sei venuto a trovarmi, ragazzo mio?» Il professore gli venne incontro a piccoli passi, incespicando lievemente sulla sinistra. «È un bel pezzo che non ti vedo.»
«Si, professore. Mi hanno detto che ha un problema.» Adam gli strinse la mano. Più fragile e sottile di quanto ricordasse, ma la stretta era ancora solida. Tuttavia, toccare il professor Douglas gli fece venire i brividi. La sua mano era fredda come un pezzo di ghiaccio.
L’anziano lo guardò per un momento, come se non capisse le sue parole. Poi i suoi occhi si adombrarono. «Oh. Giusto. Dovevo immaginarlo, in effetti, sono sette anni oramai, no?»
Sette anni, otto mesi e ventitrè giorni.
«Già.» Adam distolse lo sguardo e lo lasciò vagare sulla facciata della villetta. Due piani di assi di legno verniciate di celeste sbiadito dal sole e dagli anni.
«Da quando ti sei fatto quella…» Douglas ammutolì, ma i suoi occhi ammiccarono alla cicatrice sul volto di Adam.
Il resto del quartiere sembrava morto, silenzioso come una tomba.
«E i tuoi, Adam? Come stanno? Sei già andato a trovarli?» Il professore gli fece strada lungo il vialetto, abbandonando il tosaerba in mezzo al prato.
«Non ancora, professore.» Adam lasciò il Jabelokka sull’appendiabiti e tirò un sospiro di sollievo.
Almeno di un peso mi sono liberato.
In fondo al corridoio, una signora con un tailleur verde e i capelli canuti lo guardava come stupita.
Alzò la mano per salutarla, ma prima ancora che potesse dire “buongiorno”, la porta del salotto in cui stava si era già chiusa.
«Limonata, Adam?»
«Cosa?» Il professor Douglas era sparito.
Adam si guardò attorno senza trovarne la minima traccia. Qualcosa tintinnò alla sua sinistra.
«Limonata?» Il professore si affacciò dalla porta della cucina, con una caraffa colma di liquido giallo pallido in mano. Sorrise in direzione di Adam, ma poi il suo sguardo cadde sulla pistola.
Il giovane alzò una mano a mo’ di scusa. «Non si preoccupi, professore. È solo per le emergenze.»
Douglas annuì piano, con la bocca semiaperta e lo sguardo corrucciato ancora fisso sull’arma. «Solo per le emergenze.» Borbottò.
Sparì di nuovo oltre la porta. «Vieni, ragazzo, vieni pure.»
Adam entrò in una cucina piccola, dal sapore vintage. Le antine azzurre dei mobili e le piastrelle bianche e gialle, come i quadretti della camicia del professore, avrebbero quasi potuto cantare “Pretty woman” da quanto facevano anni Sessanta.
Ogni cosa al suo posto, nemmeno una briciola in giro. Complimenti alla padrona di casa.
C’era addirittura il classico tostapane d’alluminio lucidato a specchio, sul pianale.
Si sedette con le spalle alla porta, di fronte a un bel bicchiere di limonata frizzante. Il professor Douglas si versò del latte dal cartone in una tazza e gli si mise di fronte. «Sai, è parecchio che non vedo i tuoi.»
«Loro…è parecchio che non li vedo anch’io.» Adam sospirò e bevve un lungo sorso di limonata.
Dolcissima, il sapore di limone era giusto un accenno, esattamente come quando era bambino.
«Eh, io non la posso più nemmeno toccare.» Il professore era intento a fissare il bicchiere. Si inumidì le labbra. «Troppo zucchero.»
Adam bevve ancora un sorso. «Come le vanno le cose, da quando si è ritirato qui? Niente più esperimenti con la macchina del fumo?»
«Cosa?» Douglas distolse lo sguardo dalla limonata e battè gli occhi un paio di volte. «Oh, no, non più oramai. Ancora qualche giochetto con il cloruro di potassio e il solfato di rame, sai, per fare spaventare qualche bambino.» Fece una risata nasale e guardò l’orologio che aveva al polso.
Rimase in silenzio a contare i secondi.
«Professore?» Adam finì la limonata e lasciò giù il bicchiere. «Va tutto bene?»
Douglas spostò di nuovo gli occhi su di lui, pensoso, come se ci fosse qualcosa che non gli tornava.
Fu allora che Adam sentì quella familiare, calda stretta alla base della nuca.
Una ragnatela di brividi gli serpeggiò per tutta la schiena.
Cosa cazzo succede? Cosa, santissimo iddio?
Lo sguardo gli cadde sulla caraffa di limonata da un litro e mezzo poggiata sul pianale accanto al tostapane. La voce dell’istruttore Doyle, come il ringhio di un vecchio bulldog, prese il posto della sua dentro alla testa, come ogni volta che Investigazione 101 gli tornava alla mente.
Molta limonata, per un uomo che non può berla.
«A sua moglie deve piacere molto questa limonata.» Adam non guardò il professor Douglas, perchè qualcos’altro aveva attirato la sua attenzione. Un riflesso nel lucido tostapane, deformato dalla sua curvatura.
Una figura scura. Alle sue spalle.
«Mia moglie è morta un anno e mezzo fa.» La voce di Douglas lo raggiunse come un soffio.
Si voltò di scatto e fece in tempo a cogliere il movimento di un’ombra che spariva lungo il corridoio.
«Resti qui.» Si alzò dalla sedia e si rimboccò le maniche della camicia, la cravatta nera che ondeggiava a ogni passo.
In un attimo fu al salotto, aprì la porta.
La signora era seduta sulla poltrona. Gli dava le spalle e guardava fuori dalla finestra.
«Spirito, io ti…» Adam iniziò a frugare nella tasca sinistra.
La donna si girò.
Doveva essere sulla settantina abbondante, minuta, il volto raggrinzito da una ragnatela di rughe.
Sembrava stesse per piangere, aveva gli occhi lucidi. Scuoteva il capo e diceva qualcosa ma il suono delle parole sembrava disgregarsi nell’aria.
Adam tese l’orecchio per sentire, ma le sillabe non erano altro che sussurri sfumati, incomprensibili, tanto bassi da essere coperti dai rumori della casa.
Il cigolare lieve del parquet.
Il ronzio statico della radio, nell’angolo del salotto.
Dei passi piccoli, quasi zoppicanti, ma incredibilmente silenziosi.
Riuscì a voltare per metà la testa quando un dolore gelido e rovente al tempo stesso gli trapassò il collo.
Subito la stretta calda alla nuca e subito un’ondata di energia attraverso i muscoli.
Tirò una gomitata ad altezza fianchi e incontrò qualcosa di fragile, poi un’altra al altezza testa.
Chi cazzo…?
Si voltò, strappandosi il coltello, perfettamente pulito, dal collo. «Professore…»
Ebbe un tuffo al cuore.
Il naso spaccato del professor Douglas fiottava sangue sulla camicia, ma gli occhi dell’ometto erano iniettati di puro odio. La sua bocca si contorceva e tremava, sussurri troppo profondi per essere suoi uscivano dalle sue labbra.
Cristo santissimo redentore…
Dal naso, il sangue prese a levitare in goccioline rosse verso l’alto.
La signora accanto ad Adam lanciò un grido terribile, come se avesse urlato mille volte assieme. I suoi lineamenti si deformarono in una maschera smunta e urlante, gli occhi si infossarono lasciando baluginare solo puntini di luce diabolica nelle orbite.
Le mani della vecchia gli serrarono la gola con tanta forza che una fitta di dolore gli attraversò l’epiglottide. Lo spettro lo schiantò contro il muro, Adam sentì l’impatto con il legno sferzargli le costole.
Il suo cervello gli abbaiò con la voce dell’istruttore Doyle.
Paranormale, ectoplasmatica, evocazione. Ectoelettrolisi.
Frugò in fretta nella tasca sinistra, gli occhi fissi su quelli del fantasma, finchè le dita non toccarono la superficie metallica dell’accendino elettrico.
Lo piazzò nel petto della donna e fece scattare la scossa. L’essere urlò e si fece indietro, le sue mani persero consistenza attorno al collo del giovane e lo lasciarono andare.
Ridotto a un ammasso grigiastro e semitrasparente, l’ectoplasma barcollò indietro piegandosi su sè stesso, il suo grido divenne un gorgoglio.
Otto secondi di tempo.
«Um-behel-annur…» Il professor Douglas si stava incidendo l’avambraccio col coltellaccio, inginocchiato a terra. le gocce di sangue iniziarono a turbinargli attorno al capo, sempre più veloci.
Puttana! Porca puttana!
Estrasse la Walther e disinserì la sicura.
BLAM! BLAM!
Mano armata e spalla.
Douglas urlò di dolore e crollò indietro, interrompendo la cantilena. Le gocce di sangue gli piovvero addosso. Adam gli saltò sul petto e calciò via il coltello. «Dov’è il feticcio?! Dov’è?!»
Qualcosa lo prese di peso e lo lanciò lungo il corridoio. Atterrò su un fianco e di nuovo il dolore gli serpeggiò per un attimo nelle ossa.
Non fece in tempo ad alzarsi che lo spettro lo riprese e se lo tirò su per le scale con la forza di un ciclone, facendolo schiantare contro una porta.
La schiena gridò per l’impatto e il fiato gli uscì dai polmoni, ma quando riuscì a riaprire gli occhi lo vide.
Un teschio umano, privo di mandibola, attorno a cui l’aria tremava, era appoggiato al centro di un cerchio di gesso in cui erano inscritte tre stelle, una a cinque, una a sei e una a sette punte.
Dal salotto provenivano delle grida, ma quando si voltò e vide la signora Douglas ferma, in piedi sulla porta scardinata che lo guardava, capì.
Non era possibile equivocare niente, in quello sguardo.
Professore, perdonami.
La signora annuì in direzione del teschio, come per spronare Adam, ma non c’era bisogno di spronarlo.
Si voltò e sparò tutti i colpi che aveva sul teschio, da sdraiato com’era. Il cranio andò in mille pezzi.
Un risucchio, uno strappo, e poi silenzio quasi irreale.
Ricominciò a sentire le grida del professore al piano di sotto, ma oramai erano più lamenti che urla.
Si alzò e scese le scale con il cuore pesante come il piombo e la pistola in mano.
Il professor Douglas respirava a fatica. Il sangue aveva inzuppato la camicia e il pavimento, iniziava a lambire le falde di tessuto del tappeto.
Ad Adam tremavano le mani. «Perché l’ha fatto, professore?» Non riusciva a parlare ad alta voce. C’era qualcosa che gli impediva di alzare il tono, anche se avrebbe voluto urlare, piangere, spaccare qualcosa a pugni. C’era un silenzio così lieve in quella casa, calato come un velo di polvere su ogni cosa.
Non il professor Douglas, non lui! Non avrebbe mai potuto, deve esserci…
All’anziano sfuggì un lamento. Una lacrima scivolò tra le rughe del viso e si fuse con il sangue schizzato sul viso. «Perché, Adam?»
Douglas teneva gli occhi serrati per il dolore, la bocca era aperta come per gridare. «Perché sei dovuto tornare?»
Perché sei dovuto tornare? Perché, Adam?
Il giovane si inginocchiò accanto a lui e premette con forza la ferita per tamponare il sangue. Nella mano c’era un buco grosso quanto una noce. «Professore, perché lo ha fatto? Come è successo?»
«Lui…lui lo diceva che saresti venuto…lo aveva detto…»
I denti gli batterono quando una scossa lo attraversò da un capo all’altro del corpo. «Chi, professore?»
«Lui…dovevo fare un lavoro…per lui…» Piagnucolò il professore. Con la mano ossuta strinse il braccio di Adam. «Non ce la facevo più, Adam. Mi mancava troppo…non potevo vivere senza di lei…»
«Chi era?» Sibilò Adam.
«Mi ha detto come fare…e di lasciarti un messaggio, se non ti avessi ucciso…solo questo…una vita per una vita…»
Adam deglutì. Tremava violentemente, come se lo avessero appena tirato fuori da una vasca d’acqua ghiacciata. «Cosa le ha detto?»
«Adam, mio…mio piccolo cavaliere…» Le parole del professor Douglas gli stritolarono la bocca dello stomaco. Erano viscide esattamente come quando le aveva sentite pronunciare l’ultima volta.
Aveva il fiatone, e nella sua testa l’immagine di quella cravatta rosa con il cuore e la spada sopra si faceva sempre più insistente. Le sue mani che lo…
Si morse la lingua con tutta la forza che aveva e il dolore soffocò i ricordi.
Mai aprire la scatola.
«Mio piccolo cavaliere.» Continuò Douglas. «I corvi tornano al nido. E le aquile cadono.»
Gli occhi del professore tornarono per un momento lucidi e incrociarono i suoi. «Mi dispiace…Adam, mi dispiace tanto.» Le lacrime iniziavano a lavare via il sangue sul viso. «Che cosa ti ha fatto…?» Le sue dita sfiorarono la sua cicatrice.
Adam si scostò di colpo, il cuore che martellava come un pazzo e lo stomaco sempre più stretto.
«Anche a me, professore.»
Prese il cellulare dalla tasca e chiamò il furgone. «Crane. Il professor Douglas è ferito…va preso in custodia. Una squadra sola.»
Dall’altra parte attaccarono subito.
Tre minuti, protocollo standard.
Lacrime nere scesero a rigargli le guance.
Mi dispiace tanto, professore.
–
Racconto di Luca Vitali
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