Le porte dell’ascensore si aprono, il colonnello impettito nella sua divisa bianca mi supera e imbocca il corridoio del sotterraneo, senza aspettarmi. Otto soldati disposti in due file sui lati si mettono sull’attenti al suo passaggio.
Uno di loro, un colosso di un metro e novanta, mi punta i suoi occhi ferini mentre stringe tra le mani l’impugnatura del suo M16.
Il colonnello si volta e mi squadra.
«Qualcosa non va?»
L’odore di muffa mi pizzica il naso. «Mi chiedevo come facciate a resistere qui dentro. Insomma, con tutte le tasse che paghiamo non potreste assumere una compagnia di pulizie?»
Il colonnello sorride, il ghigno di chi ha troppo potere per lasciarsi turbare da qualche battuta di scherno.
«Si muova.»
Riprendiamo ad avanzare. Qualcuno tra i soldati più giovani deve aver apprezzato la mia battuta, a giudicare dalle rughe d’espressione che emergono dai loro volti.
L’anello che simboleggia il Muro del regime fa bella mostra di sé sui petti delle divise.
Venti passi dall’ascensore, svolto a sinistra e proseguo per altri trenta. Quante volte ho percorso questo sotterraneo? Potrei indicare a occhi chiusi quali tubature raccolgono più condensa e quali prese d’aria sono più incrostate.
Arriviamo in fondo al corridoio. Un ragazzo sta di guardia, volto pallido e braccia molli che reggono a malapena il fucile, la presenza del colonnello lo obbliga a raddrizzarsi. Prende una chiave magnetica da un taschino dell’uniforme e la fa passare sul lettore di schede dietro di lui.
La serratura della Stanza del Sonno scatta. Il colonnello fa un movimento con il capo per indicarmi di entrare.
Quattro faretti sui muri laterali gettano chiazze di luce sul prigioniero disteso sopra una barella metallica. La faccia è gonfia di tumefazioni rossastre, gli stracci che ha indosso sono quelli di un operaio edile, forse un addetto alla manutenzione del Muro. Sono strappati e macchiati di sangue misto a polvere di cemento.
Il ventre si gonfia e si sgonfia. È vivo, ma non si direbbe da come lo hanno ridotto.
«Quanto tempo ho prima che si svegli?» Distolgo lo sguardo dal poveretto. Perché ridurli così se poi li tengono sedati?
Un mezzo ghigno si tratteggia sulle labbra del colonnello. «Difficile a dirsi. I miei uomini si sono lasciati un po’ andare, ma sa com’è: i ribelli sanno essere combattivi, e questo per poco ce la faceva sotto il naso.»
Tocco il braccio del prigioniero, le dita mi sprofondano nel tessuto. Quest’uomo non fa un pasto decente da settimane, come minimo.
«Non ha l’aria del rivoltoso, di quale crimine è accusato?»
Il colonnello si avvicina al mio orecchio, il suo fiato sa di menta da dentifricio. Un contrasto che, insieme all’odore del sangue del prigioniero, mi da il voltastomaco. «Una breccia nel Muro.»
«Una—»
«Hai capito benissimo.» Gira intorno alla barella, vi si appoggia con le nocche. «Devi scoprire tutto quello che puoi: come l’ha trovata, chi altro lo sa, capire se è stata un’azione isolata o se è parte di un disegno più elaborato da parte dei ribelli. Fai il tuo lavoro, in poche parole.»
Infila la mano in una tasca ed estrae la siringa, me la porge.
Il liquido al suo interno ha il colore e la densità del muco.
La afferro e la soppeso sul palmo. «Conosce la prassi, Colonnello. Devo restare da solo.»
Mi penetra con gli occhi per qualche secondo e annuisce. «Hai venti minuti, procurami le informazioni che voglio.»
Esce dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. La serratura elettronica scatta.
Venti minuti, me ne servono tre solo per addormentarmi, non è il caso di perdere tempo.
La sedia è già posizionata alle spalle del prigioniero, accanto a lui, su un ripiano, c’è anche un laccio emostatico ancora sigillato.
Che gentili.
Strappo l’involucro e rimuovo il laccio.
La videocamera di sorveglianza è puntata verso di me.
Mi ripeto a mente il mantra: rapido, ma al contempo naturale. Non devono allarmarsi.
Nascondo la siringa sotto la spalla del prigioniero, fuori dal campo visivo della camera, mi sbottono la manica destra e abbasso il braccio, tolgo l’altra siringa da sotto il cinturino dell’orologio e tiro in su la manica.
La camera continua a fissarmi, ma la porta rimane chiusa. Perfetto.
Il fluido nella nuova siringa è limpido e brilla alla luce dei faretti. La afferro tra i denti.
«Il tempo scorre.» Avvisa la voce del colonnello dall’interfono. Sobbalzo, per poco non mi cade di bocca la siringa. Lui ride, il bastardo.
Lego il laccio emostatico all’altezza del bicipite, del sangue esce da una delle piaghe rosse sull’avambraccio. Esploro con le dita in cerca della vena, ma non c’è quasi un solo punto che non sia segnato da lesioni infette e piene di pus, e le cicatrici complicano la ricerca. Di ‘sto passo dovrò cominciare a farmi le iniezioni sulla coscia.
Individuo un’area che per pura fortuna è ancora intonsa. Vorrei poterla disinfettare, ma il colonnello non lo considera una priorità, e del resto non ho scelta.
Sospiro e mi inietto il siero. Slego il laccio e lo abbandono sul banco. Rapido, recupero la siringa che avevo nascosto sotto il prigioniero. La infilo in tasca insieme alla mia.
Me ne sbarazzerò quando mi sveglierò, sapere che non dovrò più combattere con le emicranie del formulato originale è già un grande conforto.
Mi sfrego gli occhi. Le palpebre si fanno pesanti. La mia formula è come una carezza sul collo, che mi invita ad abbandonarmi secondo dopo secondo alle braccia di una donna amorevole…
Invece devo eseguire i miei ordini. Appoggio il mento sul banco, avvicino la testa a quella del prigioniero…
Mi figuro l’immagine di una panchina su un parco pubblico… come quelli che c’erano prima dell’instaurarsi del regime… prima che il Muro fosse eretto…
Chiudo gli occhi e…
Mi abbandono al sogno…
Li riapro, sono seduto sulla panchina. L’aria fresca e pulita mi soffia tra i capelli, una donna sta facendo jogging nella stradina al di là del prato, ha delle cuffie wireless sulle orecchie. Dei bambini giocano con un drone volante e si divertono a spaventare dei piccioni che si posano a terra per beccare. Un uomo sta portando al guinzaglio un gruppo di cani, uno di loro è un dalmata con le macchie turchesi.
A parte il dalmata, il sogno rispetta tutti i miei ricordi del periodo ante-regime. I casi sono due, o stanno diventando più realistici, oppure è l’effetto della formula.
«Dove mi trovo? Che posto è questo?»
L’uomo accanto a me ha il volto del prigioniero, ma invece degli stracci ingrigiti ha un elegante cardigan e dei jeans stretti da una cintura con la fibbia in metallo. Ai tempi dell’università ne avevo una simile, forse la stessa.
Schiarisco la voce e lui si gira verso di me.
«Tu chi sei? Che mi avete fatto?»
«Non fare lo gnorri, su. Sai benissimo dove ci troviamo.»
Penso all’immagine di un castagno che si materializza in mezzo al prato, ed eccolo lì. Il drone dei bambini finisce tra i suoi rami, i due se ne vanno sconsolati. Immagino il drone tramutarsi in un passerotto e intonare la melodia di un brano classico. Il prigioniero solleva il mento e chiude gli occhi, si mette in ascolto. La sua bocca emette un lungo sospiro, le sue spalle si abbassano.
«Tu sei l’Onironauta.»
«In persona. E tu devi essere Conrad.»
«Il regime mi ha beccato, quindi.»
«Sì, e ti ha anche sistemato per bene.»
Si raddrizza e comincia a tastarsi la faccia con la mano, in cerca di tumefazioni pulsanti.
«Non è necessario, nei miei sogni nessuno è ferito.» Mi distendo sullo schienale della panchina, la melodia ha un effetto terapeutico sull’animo.
Conrad non è dello stesso avviso. Si piega in avanti, i gomiti appoggiati alle cosce, i piedi iniziano a tamburellare la ghiaia. «Non è che avresti una sigaretta? Va bene anche se è consumata.»
«Tasca sul retro.»
Si alza e comincia a rovistarsi il didietro. Estrae un pacchetto spiegazzato, dentro gli faccio trovare anche un accendino.
Me ne porge una, ma io declino. «Ho smesso.»
Conrad fa un paio di tiri, la tensione sul suo volto si dissolve in una nuvola di fumo.
L’odore mi fa salire la nausea. Troppo realismo, spero di non svegliarmi nel bel mezzo del sogno per scoprire che qualcuno mi sta fumando a un palmo dal naso.
«Conrad, vogliono sapere della breccia. Cosa ci puoi dire a riguardo?»
L’uomo tiene il mozzicone in equilibrio tra pollice e indice, fa un altro tiro ed espira il fumo.
«Sei molto diretto, te l’hanno mai detto?»
Sorrido. «Mettila così, qui dentro ho il pieno controllo. Se volessi potrei estirparti le informazioni direttamente dal subconscio. È quello che faccio credere a loro, ma a me non piacciono certi metodi.»
«Ci tengono in gabbia, ci trattano come animali. E ora vogliono sapere come ho fatto a fuggire.»
«Se ti dicessi che posso tirarti fuori dai guai, collaboreresti?»
Conrad ride e getta il mozzicone lontano.
«Dico sul serio» continuo «anch’io ne ho abbastanza del regime e del suo cazzo di Muro. Una volta aiutavo le persone a liberarsi dai loro demoni interiori. Davo forma ai loro traumi, alle loro fobie, insegnavo loro come liberarsene.»
Il parco si riempie di macerie. Cadaveri bruciano in strada. Un’eco di esplosioni e grida umane sostituisce il canto dell’uccellino.
La figura del colonnello compare davanti a noi.
Conrad scavalca la panchina, si appresta a fuggire.
«È solo una proiezione» gli dico «dai, torna a sederti.»
Il colonnello tiene una radio trasmittente in una mano e una foto bruciacchiata nell’altra. Dalla radiotrasmittente una voce grida e invoca ordini. Il colonnello è una statua di sale.
Mi alzo in piedi. «Maledico quel giorno.»
Conrad mi fissa con occhi smarriti.
Cammino verso il colonnello, ripetendo un copione che ho interpretato decine di volte.
«Non mi importava chi fosse. Per me era solo un uomo spaventato, che aveva appena perso la sua famiglia. I genitori e suo figlio, il suo unico discendente.»
I ricordi mi restituiscono le sensazioni che provai quel giorno: un’esplosione ci catapultò entrambi a terra, le orecchie presero a fischiarmi, il petto paralizzato dall’onda d’urto, le gambe che non rispondevano ai miei comandi.
Il colonnello era accanto a me, svenuto. Ricordo che strisciai verso di lui, appoggiai il mio mento sul suo…
Frustrazione. Paura. Abbandono. Il desiderio di puntarsi la pistola alla tempia e premere il grilletto.
Avevo dimenticato quanto fosse confuso viaggiare nei sogni altrui da sveglio. Non puoi modificare nulla, solo intervenire sulla loro psiche e affidarti ai feedback che ricevi.
Quel giorno convinsi il colonnello a desistere dal suo intento suicida, placai la risposta emotiva alle grida del figlio, lo riportai al momento presente.
Aprii gli occhi ed ero… no, sono…
Sono seduto sulla panchina, con il vento che soffia delicato sui nostri visi, i bambini che giocano col drone, i cani che passeggiano al guinzaglio. Ma stavolta non c’è nessun dalmata turchese.
Conrad è accanto a me, gli allungo un’altra sigaretta.
«L’ho aiutato senza pensare che fosse dell’esercito d’insurrezione, e come premio mi arruolò.»
Il fumo della sigaretta mi penetra le narici, un colpo di tosse irrompe dai polmoni. Frusto l’aria col palmo della mano.
«Tu morirai Conrad, sia che collabori o no. Il colonnello ti giustizierà non appena avremo finito. Ma io posso aiutarti a uscirne.»
«Come?»
«Voltati.»
Lui esegue, ma io no. Non riesco a guardarli negli occhi.
«Chi sono queste persone?»
Me li immagino: come un plotone di esecuzione allineato alle mie spalle.
«Sono quelli che ti hanno preceduto, Conrad. Persone che ho interrogato e che hanno accettato la mia proposta.»
«Ma che cosa vuoi fare? Non capisco.»
«Devi cedermi la tua coscienza e i tuoi ricordi, compresi quelli relativi alla breccia nel Muro.»
Conrad sgrana gli occhi. «Non mi sembra un buon piano.»
«Come ti ho detto, tu sei andato. Puoi finire in coma o svegliarti insieme a me, ma nulla ti eviterà il buco in testa. Ma se ti unisci a noi, continuerai a vivere dentro di me. Viaggerai nel mio subconscio, sarai parte dello scenario quando sognerò, e potrai interagire con tutti gli altri ogni volta che vorrai. Il regime può controllare chi è là fuori, ma qui dentro sono io che detto le regole.»
Conrad si gratta il viso, soppesa le mie parole. Si gira per cercare conferma negli sguardi degli altri. Ma io li conosco e so che non parleranno, non finché io starò qui a sentirli.
«E se confessassi al colonnello quello che fai qui dentro?»
Un brivido sul collo, come si mi avessero appoggiato sopra del ghiaccio. «Se lo fai, condannerai anche loro.»
I peli mi si rizzano. Strano, è la prima volta che succede. Non avrò sbagliato qualcosa coi dosaggi? Eppure la formula è sempre la stessa.
Conrad scuote la testa, le sue labbra si muovono, ma non esce alcun suono. L’ambiente intorno a me si deforma, il paesaggio assume geometrie contorte, le persone diventano ombre nere. Per quanto ci provi, non riesco a ripristinare il parco, non ho il controllo del mio sogno.
Conrad mi appoggia le mani sulle spalle, per un momento mi sembra di sentire il timbro della voce del colonnello. Mi scuote e le sue dita mi premono nella carne con un’irruenza che non si giustifica.
BANG!
La testa gli esplode, frammenti di carne e ossa mi finiscono addosso.
La scena si riempie di rosso, frattali taglienti spuntano in cielo e in terra, quel che resta di Conrad si disintegra in una nube cremisi. Il sogno si frantuma e attraverso le crepe compare la Stanza del Sonno.
Di là dal sogno il colonnello mi alita in faccia, di qua foglie di menta appassiscono ai miei piedi. Mi stampa il palmo della mano sulla guancia e io mi sveglio.
Calore che si propaga fino a dietro al collo. Urina, feci e polvere da sparo.
«Fatelo sparire.» Urla il colonnello ai suoi uomini e indica il cadavere di Conrad. Mi prende per le spalle e mi spinge contro allo schienale della sedia. «Credevi che non ce ne saremmo accorti?»
Il colonnello mi infila la mano in tasca ed estrae il siero, quello del regime. Ne sfila via il cappuccio protettivo e me la punta all’occhio.
«Che cosa combinavi laggiù, da quanto va avanti ‘sta storia?»
Vorrei parlare, mandarlo al diavolo, ma il mio siero è ancora in circolo, le palpebre si chiudono contro la mia volontà.
«Rispondi!» La punta dell’ago mi sfiora il bulbo. La mano mi si alza di riflesso, un soldato la blocca a mezz’aria.
«Ammanettalo.» Ordina il colonnello.
Le morse mi strozzano i polsi. Griderei, se non fossi intontito.
«T-ti…» le parole mi escono di bocca come gemiti, contro la mia volontà.
«Che dici, coglione?» Avvicina l’orecchio alle mie labbra.
«Ti a-abbiamo… fregato.» Rido, pilotato dalle coscienze che vivono dentro di me.
«Vuoi fare la fine del tuo amico?» Mi indica i resti delle cervella di Conrad sulla barella. La mia risata, invece, si fa ancora più chiassosa.
«Tu non farai niente… ahahah… hai bisogno di lui… ahahah… ti ha salvato… ahahah… non sei niente senza l’onironauta… ahahahah!»
Una puntura sull’avambraccio, vicino a una piaga infetta. Il bruciore mi ridesta dall’annebbiamento.
Il colonnello trema. Le sue palpebre tremano, i suoi denti tremano. Il fiato esce corto. «Hai ragione.» Mormora. «Non posso fare a meno di te, ma nessuno mi ha detto che devo tenerti sveglio.»
Mi sento svenire. Se quello che mi ha iniettato è il preparato fornito dal regime, la prima cosa che arriverà sarà… ecco… la pulsazione alla testa che si trasformerà in emicrania.
Non mi sento più le gambe… in circolo ho abbastanza siero da essere fuori gioco per… per…
Il colonnello si rivolge a uno dei suoi. «Dammi quell’affare.»
È un fucile quello? Me lo sta puntando addosso… vuole uccidermi.
Tonfo sulla fronte, rapido come una scintilla.
Sono seduto sulla panchina.
Conrad non c’è più. Ho pensato di avere la situazione sotto controllo, ma sono stato imprudente, ho incasinato tutto di nuovo, come quella volta.
Dio, perché mi hai fatto salvare il colonnello? Perché lui e non Conrad?
Una mano mi tocca la spalla, uno dei miei sognatori prigionieri.
Sospiro. «Lo so, sono un disastro. E ho paura che stavolta sono condannato a restare qui dentro per un po’.»
«Beh, finché c’è da fumare ce lo faremo andar bene.»
Questa voce, puoi mai essere? «Conrad!»
L’ometto è lì, si gratta la nuca con la mano. Le coscienze che ho immagazzinato nel corso degli anni ci circondano e osservano in ossequioso silenzio.
«Immagino che il trasferimento sia avvenuto poco prima che mi sparassero, me la sono vista brutta. Ora che si fa?»
Qualcuno viene verso di noi, capelli biondi e lunghi, avvolta in un cappotto bianco come la neve. È Lisa.
«Oh, piacere. Non… non credo di essermi presentato.» Conrad esita a mezz’aria con il palmo della mano. Lei glielo stringe con decisione.
«Chiamami solo Lisa.»
«Oh, e tu chiamami pure Conrad.»
La donna rivolge a me i suoi occhi verde oliva. «È il momento di scatenare la Legione, non credi?»
«Credo anch’io. Se conosco il colonnello, non si arrenderà tanto facilmente. Mi terrà in gabbia, ma continuerà a servirsi di me per i suoi scopi.»
Conrad solleva la mano, come un alunno ai tempi della scuola. «Legione? Come quella romana?»
«Ci sei andato vicino. È la rivolta che stiamo preparando, una che né il colonnello né l’intero regime possono controllare. Non ci sarà Muro che potrà fermarci, né una pallottola che ci abbatta.»
«Viaggeremo da sogno a sogno.» Si inserisce nel discorso Lisa «Arruoleremo tutti coloro che vogliono opporsi al regime. Attaccheremo il governo direttamente nei loro sogni. E se vogliono fermarci, che ci provino.»
«Oh, sembra interessante. Ma lei esattamente chi è, Lisa?»
La donna sorride a Conrad, rivelando la sua dentatura bianca e immacolata. «Sono la prima onironauta, quella che ha diffuso il potere fra tutti gli altri.»
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