L’uomo è disteso al suolo. Non avverte dolore, ma non riesce a rimettersi in piedi.

Tutto intorno l’aria è rafferma, unta di umori e di molecole di sangue. È un pungiglione che gli attraversa le narici e ristagna nel cranio. Il feroce lezzo di putrefazione gli stronca il respiro in gola e lo trasforma in un sibilo: l’unico segno di vita a contrastare il silenzio.

Vorrebbe chiudere gli occhi e riposare.

Non ricorda più l’ultima volta in cui ha dormito tre ore di seguito senza che qualcuno lo svegliasse.

Prova a distendere le gambe e il dolore esplode in ogni anfratto del suo corpo. Un ronzio gli dilania le orecchie e ha il ritmo cadenzato di una marcia militare, che ingloba altre note e s’espande in effetti sonori lontani. Le note si districano, spianano lo spazio al canto che sua madre intona ogni volta che lui la chiama per informarla di una nuova missione.

È il loro patto segreto: la benedizione materna è l’egida che infonde coraggio e devia i colpi della paura.

Apre gli occhi, vorrebbe vederla anche solo per un attimo mentre per l’ennesima volta gli ripete:

“Ricordati che la vittoria militare è questione di forza, tattica e fortuna. Ma la salvezza delle vite umane è questione di volontà, competenza ed efficienza.”

L’assolo dell’anziana si dirama in miriadi di voci: è il coro dei bambini all’arrivo dei convogli umanitari inviati in tutta la provincia dell’Oudalan, nella zona nord del Burkina Faso e nei territori confinanti.

E quelle voci gridano all’unisono che non c’è tempo, deve alzarsi, accertarsi che il carico e i mezzi non abbiano subito danni, ripartire al più presto per impedire che decine di feriti si aggiungano alla lista dei caduti.

 

Sono partiti in ritardo per la sua mania di controllo. Sa che è impossibile calcolare tutte le variabili, prevenire l’imprevedibile e trovare sempre una soluzione. Sa che, per quanto un calcolo sulle probabilità possa essere corretto, gli eventi spesso obbediscono alla casualità e si combinano seguendo vie trasversali che contraddicono ogni logica.

Lo sa, ma non ha intenzione di comportarsi come l’ex responsabile della stazione sanitaria che ha sovrinteso all’ultimo rifornimento da ubriaco. Al rientro al campo, mancavano i fili di sutura, il cloroformio e le fiale di morfina. Curare i feriti è stato peggio che lasciarli morire.

Ora è lui il nuovo responsabile della stazione sanitaria e non permetterà a nessuno di commettere errori.

 

È rientrato da meno di 24 ore da un’altra missione: raccogliere i bambini abbandonati per strada e condurli all’orfanotrofio di Gorom Gorom, alla Casa Matteo “Baade Sukabe” (La casa dei bambini) per impedire che siano catturati dai guerriglieri, addestrati e costretti a combattere. Ogni bambino sottratto ai jihadisti è un soldato in meno contro i civili. Per i bambini più piccoli e deboli il destino è, se possibile, più atroce: diventano scudi umani o kamikaze.

L’ordine è recarsi con la sua unità alla stazione sanitaria più vicina, rifornirsi di farmaci, attrezzature mediche, cibo e materiale di prima necessità, e scortare il convoglio verso l’infermeria di Baade Sukabe. Nell’ultima settimana si sono succeduti tre attacchi e ci sono migliaia di feriti in condizioni disperate.

 

Alla stazione di rifornimento si odono solo i suoi ordini e i passi dei soldati che corrono come impazziti dai container al convoglio. C’è un soldato in disparte, parla alla radio, osserva con rabbia il frenetico lavoro, gli si avvicina:

“Dottore, dobbiamo muoverci prima dell’alba o saremo un bersaglio facile”.

Ha la voce stridula il soldatino, come se dovesse ancora completare la muta vocale. Il pomo d’Adamo sembra bucargli la pelle, ma ha l’espressione risoluta e ferrigna di chi sa il fatto suo.

Lui non lo degna di risposta né di uno sguardo. È abituato alla litania delle leve che si lasciano prendere dal panico quando devono guidare il convoglio sanitario verso un posto di medicazione o lungo tratte pericolose. I veterani sono meno ansiosi, aspettano l’ordine di partenza e intanto riposano, fumano e scambiano informazioni con i colleghi da campo.

Entra in uno dei container e da uno scatolone su cui è scritto “Fornitura personale del dirigente sanitario”, estrae tre grosse buste sigillate e le ripone nel suo zaino.

Alza lo sguardo e si scontra con gli occhi del soldato.

“Dottore.”

“Ho capito.”

Sono di un verde intenso quegli occhi. Dal viso imberbe, cola un intruglio di polvere e sudore che scopre scie di pelle maculata da efelidi. L’arcata sopraccigliare sinistra è interrotta da una ferita che risale verso l’osso frontale. Il medico si avvicina al soldato. Le bende intrise di una secrezione sierosa puzzano e sono attaccate alla pelle da un frammento di cerotto incrostato.

“Questo è il risultato della fretta. E chi ha eseguito la sutura doveva averne parecchia. Quando arriviamo al campo presentati in infermeria”.

Il soldato non risponde. Il medico esce nello spiazzo e scatta un serrato botta e risposta con gli addetti all’approvvigionamento.

“Divaricatori e refrattori”

“Caricati signore”

“Seghe Charriere”

“Caricate signore”

“Seghe fini Langenbeck e lame di ricambio per pinze taglio anelli”.

“Caricate signore.”

Il giovane soldato si allontana, siede alla guida della jeep, e reclina il capo all’indietro. Il cielo sbiadisce e il soldato mastica una bestemmia.

Il convoglio parte all’alba. Sei miglia e poi l’esplosione.

 

Finalmente è riuscito a mettersi in piedi. Il terreno è viscido come un lombrico, eppure non piove da mesi.

Non riesce a vedere le sue gambe. Di sicuro è effetto dell’esplosione: sono stati centrati in pieno.

Ci sono rottami sparsi ovunque, attrezzature mediche, farmaci, corpi e pezzi di carne bruciacchiata.

Poco distante c’è uno stivale da cui fuoriesce un pezzo di gamba incastrato nel volante di una jeep.

“Non andrete più da nessuna parte voi tre.”

La sua voce lo fa trasalire. È confuso, stanco.

Non sente dolore. È cessato anche il ronzio.

Racconto di Adriana Giotti