Gyls diede un morso alla mela e levò lo sguardo. Succo dal sapore più agro che dolce pervase la sua bocca.
Ebbe una sensazione, un brivido che lo riportò alle fiabe dell’infanzia. Al di là dei solenni picchi che si profilavano davanti a lui, in una valle che si stendeva sul versante opposto della catena montuosa, gli alberi della Selva Spettrale affondavano le radici nella terra maledetta. A dar retta alle storie, esseri loschi di ogni razza andavano errando per quella foresta, una tomba di vegetazione che chiamavano Illhebron. Spuntava una pianta per ciascun uomo che moriva là dentro, gli raccontava sua madre da piccolo; un albero dal tronco sporco di sangue.
L’ammonimento di tutti i racconti era: “comportati bene, o i fantasmi ti trascineranno nella foresta.”

Un brusio di foglie lo ricondusse al presente.
Osservò che del frutto era rimasto solo il torsolo. Si mise in piedi, gettando lo scarto alle radici del melo selvatico che gli aveva offerto l’ombra.
Attento a non produrre alcun rumore, Gyls scese dalla collinetta e si immise nella macchia. Setacciò la boscaglia con gli occhi: non vide nulla che non fosse il luminoso verde dell’estate e qualche roccia. Avanzò ancora quatto quatto, girando attorno al piccolo poggio.
Infine, ecco davanti a lui la fonte del fruscio. Distante una decina di metri, la testa china a brucare da un arbusto, stava un giovane cervo. Gyls mantenne il sangue freddo mentre si toglieva l’arco dalla schiena. Dire che di cervi ne aveva presi più di quanti gli erano sfuggiti, sarebbe stata una menzogna. Portò una mano alla faretra, posizionò la corda nella cocca…

Un grido penetrò nelle sue orecchie.
Con un frullo d’ali, uccelli spiccarono il volo dalle frasche. Il cervo alzò il capo esibendo i palchi poco sviluppati, lanciò un paio di occhiate intorno a sé e scappò via. In meno di un istante si era dileguato tra gli alberi.
Un secondo grido fece breccia tra le fronde, un’invocazione soffocata a metà.
Gyls raccolse la freccia da terra, tutta la propria attenzione trasferita sull’udito. Un vociare confuso lo raggiunse da valle.
Dei cacciatori come lui stavano molestando una donna? O forse si trattava di briganti? In quel caso avrebbe potuto approfittare della situazione e depredarli.
“Magari hanno frecce, attrezzi utili…” meditò in testa sua. “Non sarebbe male se hanno portato del cibo.”
Si mosse in direzione delle voci, scoprendo nuove informazioni man mano che si appropinquava: erano parlate aspre, appartenevano a uomini, dichiaravano minacce e intimavano ordini.

«Togliti quello straccio di dosso!»
«Fai cadere l’accetta, sennò fisso la tua zucca all’albero!»
«Muoviti, biondina!»

Gyls pervenne al luogo delle voci: in una radura sotto di lui, tre uomini costringevano, contro il tronco di un faggio, una ragazza vestita di un abito consunto. Un dardo dall’impennaggio bianco stava conficcato una spanna al di sopra del suo capo. C’era del legname sparso ai suoi piedi, piedi scalzi dalla forma aggraziata. La vittima teneva davanti a sé un’accetta, impugnandola con tutte e due le mani.
«Non scherzare con il fuoco, piccola!» Disse quello con l’arco, un tizio di corporatura secca e provvisto di barba biondo-rossiccia, ma pelato sulla cocuzza.
Quello alla sua sinistra assentì grugnendo, era un energumeno nerboruto con un occhio guercio. Alla destra dell’arciere, un individuo canuto, la barba e i capelli arruffati, si reggeva curvato su di un bastone. Entrambi stringevano una daga in pugno. Simili soggetti potevano essere null’altro che fuorilegge.
Le daghe, i dardi, un arco di scorta, avrebbero fatto molto comodo a Gyls. In più, l’arma in mano al tipo robusto presentava una pietra violacea sull’elsa.
“Se è un’ametista, a venderla al mercato del villaggio me ne verrebbe un bel tesoretto…” Fu il pensiero che lo convinse ad agire.
Posizionò la freccia, tese la corda e mirò. Non appena fu sicuro, mollò la presa.
Ci fu un sibilo, quindi un urlo tremendo misto al battito d’ali delle cornacchie. Una fontana rossa stava sgorgando tra il collo e la spalla dell’arciere agonizzante. Arco e dardo gli caddero di mano, cadde anche lui, si dimenò in preda agli spasmi e morì.
Gyls non si lasciò distrarre troppo da quel macabro spettacolo. Prelevò una seconda freccia e, in una manciata secondi, anche il vecchiardo col bastone era a terra. Due zampilli di sangue sprizzavano dal cranio traforato.
L’energumeno non si atteggiava più da energumeno: si stava dando alla fuga come un coniglio. Mentre Gyls mirava per la terza volta, un corpo roteante si andò a ficcare dritto in mezzo alla schiena dell’omaccione.
L’accetta da legna della fanciulla.
Andò vicina all’ambiguo ceppo di carne e lo colpì una seconda volta, una terza, una quarta, finché i ruggiti da indemoniato non cessarono.

“Non le saltasse in mente di prendersi la daga…”
Con un balzo, egli atterrò nella radura e camminò verso la giovane. Lei non indietreggiò nel vedere arrivare un’altro uomo dalla boscaglia, per di più un ceffo con le sopracciglia unite, il naso rincagnato, cespuglio castano in testa e barba penzolante da caprone. A Gyls mancavano solo le corna.
«Ottima mira!» Fece la bionda, per niente interessata alla daga.
«Ti ringrazio. Anche tu non te la cavi male con l’accetta.»
Si chinò a raccogliere l’arma. La pietra viola era limpida, non opaca alla stregua di un qualunque sassolino dipinto. Rifletteva luccichii come una vera gemma. Maneggiò il cimelio giocherellandoci, quindi se lo assicurò alla cintola.
La boscaiola alle sue spalle non lo ringraziò del complimento che le aveva fatto. Gyls sapeva per certo che lo stava fissando, con tutta probabilità messa a disagio dalla sua goffaggine.
Sottrasse ai morti il resto del bottino. Carpì la faretra e l’arco del bandito pelato, la lama del vecchiardo, una pietra focaia e poche monete di rame. Ignorò una lampada di terracotta, strani fiorellini in un sacchetto, e ulteriori cianfrusaglie di scarsa utilità.
Di cibo neanche una briciola, ma non aveva importanza. La daga gli avrebbe permesso di investire in polli, porci, vacche. L’unico cane che fosse mai riuscito ad addestrare alla caccia era stato Lampo, un bastardo che due anni prima era crepato contro un cinghiale. Con i soldi ricavati dalla vendita, si sarebbe potuto comprare un autentico levriero di Yvreia, la razza migliore.
“Basta meticci e addio agli stramaledetti addestramenti.” Un pensiero senza dubbio allettante.
«Abiti nel bosco, ragazza?» Gyls ne aveva abbastanza del silenzio.
«In un piccolo rifugio sotto un colle, non molto distante da qui.»
Gente dei boschi; lo aveva sospettato. Anime inselvatichite che conducono una vita di caccia e pesca lontano dai centri abitati.
«E i tuoi genitori?» Fece lui.
«Morti.» Lo disse con dolce disinvoltura, come se parlasse di una frivolezza.
“Povera creatura, quelli come lei sono così estraniati dalla società che faticano a comprendere il mondo. È davvero un peccato. Una simile bellezza farebbe invidia alle mogli dei principi…”
«A ogni modo devi stare più accorta. Di solito i banditi non li senti arrivare, molti di loro imitano i versi degli uccelli per mandarsi segnali.»
Lei annuì. La sua chioma dorata si smosse per l’eccessiva espressività.
«Se mi indichi la direzione ti accompagno a casa.» Disse lui. «So muovermi bene nel bosco e potrebbero esserci altri malviventi in giro.»
«Da quella parte.» La fanciulla puntò il dito verso oriente.
Cacciatore e boscaiola si addentrarono nell’ombra della macchia. Gyls indugiò per un secondo, girandosi a sbirciare la radura. Non vi era uccello che avesse ripreso a cantare, né che avesse incominciato a banchettare con i cadaveri dei tre infami. Che si trattasse di una punizione inflitta ai disonesti dagli dèi?

Non era ancora il tramonto quando giunsero presso una parete di roccia fuoriuscente dal fianco di un’altura. Da lontano, per via dei fusti arborei che si paravano davanti a lui, gli era sembrata un comune elemento naturale, ma da un’angolazione diversa e con il vantaggio della vicinanza, capì che tra i massi si apriva un varco. Entrarono in uno spiazzo cavernoso. Per fortuna, il giorno si introduceva dalla bocca dell’antro, mettendo in luce l’ambiente e la mobilia di legno. C’erano un tavolo, due sedie, uno sgabello e una cassapanca. La ragazza posò il legname e l’accetta sul tavolo.
Sulla cassapanca c’erano due sacchi imbottiti, uno grande e uno piccolo. Gyls si avvicinò a toccarli: contenevano foglie.
«Quello lì è il mio giaciglio.» Le scappò una risatina. «Bello, non è vero?»
«Almeno hai delle candele per vederci di notte?» Quando Gyls si voltò, il vestito color bianco sporco era a terra, e la pulzella stava in piedi davanti a lui… nuda. Una leggiadria di soffici curve, proprio come se l’era immaginata.
Si avvicinò posata, un passo felpato dopo l’altro. Gyls non riuscì a distinguere le pupille nei suoi occhi: le iridi erano nere come il fondo di un pozzo. «Vuoi cederti a me?» Gli sussurrò in un orecchio.
Lo privò della tunica, slacciò i calzoni, scostò arco, faretra, e prese a baciarlo con selvaggia brama. «Il silenzio lo valuto come un sì.» E aveva ragione. Gyls la voleva, in quel frangente voleva solo lei.
Le loro lingue si incontrarono. La fanciulla portò su una gamba e maneggiò la virilità in modo da unire i loro corpi. Lui la afferrò sotto le cosce, la sollevò e lei strinse le braccia attorno al suo busto. La ragazza emise versi, e Gyls sentì affiorare il proprio godimento.
Le sue gambe non ce la facevano più a reggere tutti e due. Si inginocchiò, ma lei lo costrinse a sdraiarsi, schiena contro pietra fredda e sassolini. La giovane si avviluppò a lui con ogni arto e ogni muscolo, lingua, braccia, gambe, si mise a scuotere il bacino.
I loro sussulti si mescolarono in una cacofonia di note ripetute. Voleva stare con lei per sempre, e fare l’amore ancora e ancora…

Raggiunse l’apice.

Lei si tenne avvinghiata, continuando a stimolarlo con movimenti ritmici.

“Qual è il suo nome?” Pensava che glielo avesse detto, eppure non se lo ricordava più.

All’improvviso, Gyls si sentì immondo. Non percepiva più il demone che lo aveva posseduto fino a qualche secondo prima. Il vuoto lo aveva rimpiazzato, e tutto il suo corpo stava palpando l’inganno.

Quella allentò la presa e sollevò il capo.
Le iridi si erano accese di scarlatto, gli occhi volevano venir fuori dalle orbite. La pelle era diventata rugosa al tatto, e cadente. La capigliatura bionda non c’era più, si era sostituita a una stoppa di capelli canuti.
Una strega della peggiore razza; di quelle che illudono la mente.
Volle prendere la daga con l’ametista dal suo fianco, ma le sue dita incontrarono nient’altro che la cintola di cuoio. I banditi che aveva ucciso, erano anch’essi un’illusione?
“Sei un imbecille…” gli gridò una voce interiore mentre fitte atroci bersagliavano la sua testa.
Gyls fece per strisciare indietro, ma si ritrovò con le grinfie di quella nel costato. Urlò in preda al dolore.
«Fermati!» Stridette la megera.
«C-co-cosa vuoi?»
«Adesso devi cederti a me.» La bocca le si allargò in un ghigno di denti aguzzi come pugnali.
«Lasciami! L’ho già fatto!»
Gli alzò il mento con la forza. Davanti agli occhi di Gyls, si parò uno scorcio del verde mondo fuori dall’antro… sottosopra.
«Sciocco! Il seme dev’essere alimentato con il sangue.»

Ora, il gracchiare delle cornacchie rintronava per l’aere del tardo pomeriggio. Cantavano per lui.

Un momento dopo, egli ricevette l’ultimo bacio di quell’essere dannato.

Racconto di Simone Orticelli.