L’arcipelago del Relitto Verdeggiante era composto da cinque piccole isole. Ognuna non era più grossa della città più piccola della terraferma. Era possibile andare da un capo all’altro di un’isola in meno di una giornata, e ogni isola era collegata alle altre da una fitta rete di ponticelli in canapa e assi di relitti.
Data la poca area disponibile, tutti gli edifici si sviluppavano uno sopra all’altro in altezza, ammassati come un banco di sardine. Tutti gli edifici erano provvisti di passaggi segreti, ponti, percorsi, scappatoie, e botole che permettevano di passare dalla locanda al mercato, al negozio di liquori e da lì al porto e così via. Non vi era luogo non connesso a tutta la rete di passaggi, e non vi erano punti non raggiungibili a piedi o tramite scivoli poco sicuri.
Era stato preparato tutto con un caos ragionato. Si dice pure che ci fossero tunnel che collegavano le isole sotto il livello del mare in caso fossero caduti i ponti principali.
Ogni casa e abitazione, anche la più piccola aveva accesso al mare, e non vi era abitante che fosse sprovvisto della propria barchetta. Perché era impensabile vivere in quell’arcipelago caotico senza una barca. Era, infatti, l’unico modo per muoversi, arrivare e partire da quel posto. Una gabbia di acqua, sabbia e liquori.
Era l’anarchia più totale.
La fauna del luogo contava le più disparate figure: Pirati di ogni tipo, ubriaconi e figli nati bastardi, puttane in cerca di una paga maggiore, disperati in cerca di lavoro sulle navi, locandieri poco raccomandabili, commercianti in cerca di vendere fin propria madre e nobili caduti in povertà, alla ricerca dei vecchi fasti di un tempo.
Tutto era possibile al Relitto Verdeggiante.
Sembrava che la vita lì fosse ferma, in un continuo circolo di rum, donnacce e navi dai nomi più disparati. Per ogni morto veniva chiamato esattamente uguale un qualche figlio bastardo. Così nessuno moriva e nessuno nasceva veramente. I bambini sembravano nascere già con la barba e le parolacce in bocca.
I pregiudizi erano affogati in mare insieme ai figli storpi o i traditori.
Anarchia controllata dal pirata del momento con più soldi. Una parvenza di governo e di controllo era data con l’elezione annuale del Re Pirata, detto anche Capitano del Relitto.
Appena il mare si apriva alla bella stagione, lasciando all’inverno le burrasche e inaugurando il periodo delle scorribande, era eletto circa democraticamente il Capitano delle scorribande, che avrebbe dovuto condurre tutte le scorrerie per l’anno seguente.
Si decideva secondo un semplice criterio: chi aveva fatto il colpaccio più grosso dell’anno vinceva.
E così iniziava l’annuale presa per il culo, in cui pirati senza nave e ciurma annunciavano a gran voce di aver saccheggiato almeno una decina di navi della Marina Reale. Si faceva a gara a chi la sparava più grossa.
Ma alla fine dei conti, si raggiungeva quasi sempre al solito nome.
Rowley “Morsodisqualo” Jackville.
Un uomo che ormai sembrava essere eterno, dai capelli grigiastri, occhi neri e al collo una collana piena di denti di squalo.
Molte erano le voci sul suo conto. Si dice che la madre, la vecchia Mary Gambaperta, lo avesse concepito con uno squalo, e che data la prole già numerosa lo avesse proprio dato in pasto agli squali.
Tutto quello però che si sa, è che uno squalo gli mozzò di netto un braccio con un sol morso, e pare pure che abbia metà del ventre ricucito dopo essere stato colpito da una palla di cannone.
Un uomo che aveva fatto della sua vita il mare, e che proprio lì aveva fatto anche la sua fortuna.
Ma qualcosa era cambiato negli ultimi anni.
Morsodisqualo si era ritirato, non avendo più intenzione di guidare quella massa di scellerati ancora una volta verso il mare aperto.
Era giunto il momento di nominare un nuovo Capitano del Relitto.
Ma nessun nome fu proposto.
La sera prima dell’elezione, tutte le isole erano in grande agitazione.
Solo due anime non sembravano preoccupate per le sorti del Relitto Verdeggiante.
Polt e Reg stavano sul molo dell’Isola principale, l’isola della Sirena, a pescare come ogni sera.
Con le gambe penzoloni, avevano lanciato le canne da pesca a poca distanza. Cercavano una cena facile per i loro stomaci vuoti.
Nel buio e nel silenzio, Polt si era addormentato, appoggiando la schiena all’umido legno del molo.
Reg invece faceva ciondolare la testa, immerso nei suoi pensieri.
Voltò il viso verso la locanda Sirena Dorata, dove un gran baccano usciva da ogni finestra e buco.
Grida di rabbia, boccali rotti e risate di ubriaconi e puttane.
«Certo che sono tutti in subbuglio per domani, eh Polt?».
Un grugnito gli venne come risposta dall’amico.
«Non so proprio chi eleggeranno…tra Flinn Ghigniaccio e Hick Quattrodita….non so veramente…tu che dici eh Polt?».
Un altro borbottio.
«Che cazzo hai detto?? Sai che sono sordo in quest’orecchio!».
L’amico si rizzò su, incerto e traballante, mettendosi seduto e risistemando il cappello.
“HO DETTO che non dobbiamo dimenticarci di Anne Jackville…”.
L’altro sbuffò.
«Ma che stai a dire…è stata esiliata quando aveva si e no tredici anni… sarà morta esattamente come tutti i suoi fratelli… ».
«É qui che ti sbagli… ho sentito dire delle storie sul suo nome…ora si fa chiamare Anne Ghignonero».
Reg scosse la testa.
«È fuori discussione…so per certo che hanno ritrovato la sua nave arenata su un’isola dispersa e lei sarà sicuramente morta di fame poco lontano».
Polt si agitò, convinto delle sue idee e delle dicerie che aveva sentito.
«E invece no, folle! Ricordi quando sentimmo di quella tragedia delle navi Reali? Dodici navi affondate in una giornata sola…ERA STATA LEI!».
L’altro uomo sputò per terra.
«Mi cascassero le orecchie se fosse vero… era solo una diceria per far tirar su il morale alle ciurme, altroché».
«Non scherzare sulle tue orecchie che l’ultima volta sei diventato sordo…».
«Eh? ».
«Appunto. Ascoltami, lei sarebbe veramente l’unica rimasta… è la figlia di Morsodisqualo… ».
«Il bastardo l’ha adottata, non ricordi ? Come anche tutti gli altri figlioli…».
«L’ha adottata dopo che lei era scappata dal padre vero, appiccando il fuoco alle sue piantagioni e si rifugiò sulla nave di Morsodisqualo…aveva le palle già a dieci anni.»
«Leggende.» sbofonchiò l’altro.
«E ricordi anche perché fu esiliata? Se la faceva con metà delle figlie della ciurma di Morsodisqualo e menava a sediate tutti quelli che ci provavano con lei… A TREDICI ANNI!».
Reg continuava a scuotere la testa, poco convinto dalle motivazioni dell’amico.
«Sparita in mare, ti dico, morta insieme ai pesci e basta.».
La lite finì improvvisamente nel silenzio.
L’acqua si era fatta più nera e iniziava ad agitarsi in maniera non naturale.
La luna si era improvvisamente oscurata.
Non fecero in tempo ad alzare lo sguardo che si videro a pochi metri di distanza una delle navi più grandi mai viste.
Grossa come due balene azzurre, con l’enorme vela aveva coperto la timida Luna.
Nel buio della notte sembrava un mostro emerso dalle acque più nere. E in prua, una fiera sirena d’oro si ergeva vittoriosa sulle onde molli.
Polt svenne spaventato, il suo cuore non era più abituato a simili spaventi.
Reg si pietrificò, lasciando solo cadere la mascella.
La nave si fermò.
L’ancora fu buttata oltre il bordo. Per quel breve momento di volo, la luce fievole della luna aveva fatto brillare l’ancora di spesso acciaio grande quanto uno squalo bianco.
Ma null’altro successe. Nessun rumore, nessuna luce.
Sembrava una nave fantasma attraccata lì per caso.
Reg, una volta ripreso dallo spavento, osservò con più attenzione la nave.
Solo dopo diversi minuti d’ispezione, notò nel buio il nome intagliato nel legno della nave.
La “Esiliata Nera”.
Trattenne una bestemmia che gli nacque in gola.
Erano forse…vere tutte quelle storie?
La tentazione fu più forte di lui.
Si lanciò in acqua, raggiungendo a nuoto lo scafo dell’Esiliata Nera.
Risalì lentamente e faticosamente la fiancata, appigliandosi alle insenature delle travi di legno verniciate di nero, come se fosse appena stata varata.
Riuscì a valicare il bordo, e si trovò sul ponte.
Deserto.
Nemmeno più le vele si muovevano agitate dal vento.
Tutto sembrava perfettamente sistemato al suo posto, non una cima fuori luogo, non una botte spostata.
E della ciurma, ancora niente.
Si avventurò nelle viscere della nave, cercando di fare meno rumore possibile.
Alla sua sinistra notò ci fossero due grandi portoni, che in teoria avrebbero dovuto portare alle stanze private del capitano.
Gli si avvicinò silenziosamente, cercando di non far gemere le assi sotto i suoi passi.
Ma con suo grande disappunto esse erano state chiuse dall’interno, e non era in grado di scassinarle.
Si limitò ad appoggiare l’orecchio, per udire eventuali suoni.
E sentì, eccome se sentì.
Gemiti femminili si facevano strada tra le pesanti assi di legno, inconfondibili e unici per un uomo. Il cuore iniziò a palpitare freneticamente, le mani a sudare, la lingua che inumidiva quelle labbra secche come il sale e la voglia forte nei pantaloni.
Reg non vedeva una donna da quando la moglie era scappata, e nemmeno le prostitute lo volevano nei loro letti.
Ma giusto quando ormai la voglia si faceva incontenibile, i gemiti finirono.
Il tempo di rendersi conto che la fantasia se la sarebbe dovuta costruire lui da solo, la porta si spalancò, facendolo cadere in avanti come un sacco vuoto, sopra la propria parte più delicata.
Alzò lo sguardo e per poco non gli venne un coccolone.
Una rossiccia dai capelli mossi e spettinati aveva aperto la porta, vestita di solo sudore e un paio di pantaloni usati. Il petto femminile era lasciato all’aria fresca della notte e il collo dolce era imperlato di sudore.
Visione paradisiaca per quel poveretto.
Ma non fece in tempo nemmeno ad allungare un dito, che la rossa afferrò la spada che teneva nascosta dietro la porta e gli infilzò la gola.
«Per i cazzo di sette mari…cosa cazzo ci faceva questo qui?!» esordì la giovane rivolta all’altra ragazza ancora stesa a letto e avvolta dalle coperte.
La biondina scosse la testa, ancora abbastanza turbata da quell’intruso. Non tanto per la morte dell’uomo, a cui ormai era abituata ad anni, ma giusto perché aveva interrotto il dolce amplesso tra le due.
«Che vada a farsi fottere da dove è venuto…»
E così dicendo, sollevò il corpo morto su una spalla e lo scaraventò oltre il parapetto della nave.
Tornò nella sua cabina, dove la bella bionda la attendeva.
Si sedette sul bordo del letto, lasciando la compagna sdraiata. Le accarezzò i capelli con gentilezza, sfiorandole il viso quasi con timore di ferirla.
«Che c’hai Anny ?» le chiese la dolce Mary.
«Nulla Mary…nulla…».
La bionda si alzò, mettendosi seduta di fronte all’amata. Le diede un bacio affettuoso sulle labbra, prendendole il viso tra le mani.
«Lo sai che capisco quando c’è qualcosa che non va…»
La rossa sospirò.
«Ho paura che quest’avventura, quest’azzardo possa allontanarci…dividerci, e che qualcuno per fare male a me faccia del male a te… ».
La bionda rise, come se l’amata avesse detto una sciocchezza assurda.
«Anny non sei l’unica che sa combattere qui, ricordi ? Anch’io mi fingevo uomo prima di conoscere te, ho combattuto e so difendermi…ricordi in quell’assalto alla nave mercantile? Quella proveniente da Yazirat… uno dei nostri bottini più ricchi…» sorrise la giovane «…e di come abbiamo saccheggiato quasi tutte le navi di quel tizio, quell’Arconte…dopo la sua morte nessuno sapeva più che fare, è stato come rubare le caramelle a un bambino.»le disse, in tono affettuoso. Avevano compiuto un’infinità di razzie insieme, e solo loro due si erano costruite un impero degno di ogni rispetto.
La rossa Anne si buttò sulla ragazza in un abbraccio carico di paura, come se sentisse il bisogno di abbracciarla un’ennesima volta. Affondò il volto tra i seni del suo unico amore, mentre Mary le coccolava la testa con dolci carezze. Erano unite in un unico abbraccio, come un unico essere e una sola anima.
«Lo giuro Mary…quel trono sarà mio, e saremo Regine dell’Oceano, come ti avevo promesso anni fa…avrai tutto quello che vorrai.»
«Ho già tutto quello che voglio qui in questo letto…»disse la bionda, stringendo Anne Ghignonero Jackville a se’.
La notte passò, e presto arrivò il giorno.
Il mastodonte nero era impossibile da non vedere, e la popolazione intera di tutti e cinque gli isolotti si era radunata sulle spiagge per osservare meglio il gigante.
Bisbigli, rumoreggi, sibili tra la gente che non riusciva a credere fosse veramente quella nave.
Solo una persona si allontanò dalla folla in gran fretta. Un uomo, alto poco meno di due metri con la faccia graffiata e il passo pesante. Scansò tutte le persone, per dirigersi alla Vecchia Casa.
Spalancò la porta principale, cercava qualcuno.
La ricerca durò poco.
Pochi metri più avanti, su un trono di legno semplice, una figura scura stava ricurva su se stessa, il volto coperto da un grosso cappello nero e una gamba di legno che batteva il freddo pavimento ritmicamente.
«E’ arrivata…».
La gamba si fermò. E il cappello si alzò.
–
Racconto di Chiara R.
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