Non ti sopporto già più.

È tutto quello che riesco a pensare aprendo gli occhi.

Nella classifica dei motivi per cui non vedevo l’ora di lasciare casa dei miei genitori, al primo e secondo posto ci sono sicuramente i miei genitori. Al terzo posto c’è il soffitto. Tutti i pensieri invasivi che la notte si condensano in lacrime, al mattino ero solita fissarli sul soffitto della mia camera. Come quando sviluppi le foto da un negativo in bianco e nero. Innanzitutto, ti serve una camera completamente buia così che la luce non possa intaccare i tuoi ricordi traumatici, poi lasci riposare le paure per tutta la notte in un bagno acido e la mattina puoi incollarle al soffitto con un fissante così che da quel momento saranno immuni agli effetti della luce.

Questo è quello che impari quando con i soldi delle ripetizioni di italiano ci paghi la terapia e con i risultati della terapia sopporti la tua famiglia mentre ti paga le rate del corso di fotografia giornalistica.

Sono scappata perché volevo cambiare soffitto. Cercavo una pellicola vergine da imprimere con ricordi felici.

Ma allora perché, dopo soli due mesi, odio anche il mio soffitto nuovo?

Non ho mai trovato una risposta a questa domanda, in compenso però ho trovato un buon palliativo. La verità è che non vogliamo risolvere i nostri problemi, cerchiamo solo il modo più facile per non pensarci.

 

Iniziò tutto la sera in cui Fra mi chiese di andare a una festa in un locale appena aperto. Ovviamente quando dico che me lo ha chiesto intendo che mi ha prima fatto sbronzare durante la cena e poi mi ha convinta che tutti i nostri problemi si sarebbero risolti vestendoci poco e divertendoci tanto.

«Dai se non le fai adesso queste cose allora quando le fai?»

Dice mentre versa meticolosamente vodka di bassa qualità in una bottiglia di limonata che è anche peggio. Non dico che divertirsi sia sbagliato, dico solo che forse le cose sarebbero andate diversamente se quella sera non avessi conosciuto Jack. Che poi non fu neanche Jack la vera svolta. Sfatiamo una volta e per tutte questo mito che il primo stronzo che incontriamo a una festa sarà responsabile di un’intera fase della nostra vita. Fu quello che ho scoperto addormentandomi nel suo letto a cambiare tutto.

Ho scoperto che il suo soffitto mi piaceva da matti. Era bello come quello della camera che condividevo con Fra, o almeno lo è stato nelle prime settimane in cui ci ho dormito.

Questa scoperta non poteva essere lasciata al caso. La sera successiva scrissi a Jack, visto che non potevo dirgli – Ehi ciao vorrei provare a svegliarmi in casa tua anche domani e capire se sono depressa – cercai di inventarmi una scusa e alla fine tutto ciò che dissi fu: «Ehi ciao, senti… io…» fortunatamente lui fu più audace di me e completò la scusa al mio posto. Così andai a trovarlo per vedere un film di cui avevamo parlato e che ovviamente non avremmo mai finito.

Per un paio di mattine il soffitto di Jack andò bene, poi anche quello si impregnò di tristezza.

Non so se è perché torniamo dove siamo stati bene o semplicemente perché nel frattempo era di nuovo sabato, ma questa volta fui io a proporre a Fra di andare a una festa.

E lì conobbi un ragazzetto in tuta larga che fuma erba e non balla, per gli amici Gogi. Sì, come le bacche.

Gogi viveva in una casa molto vecchia assieme al proprietario che è anche un suo amico e gli fa un ottimo prezzo sull’affitto. Il suo soffitto era un po’ malandato e l’intonaco in alcuni punti aveva ceduto ma questo non lo rendeva meno piacevole.

Poi ci fu Lorenzo con il soffitto di Lorenzo.

Poi il soffitto di Cristiano.

Poi quello di Jessica.

Poi Filippo.

Poi Jessica e Gogi assieme sotto il soffitto di Jessica.

Non mi importava del sesso o dell’amore, svegliarmi con un panorama diverso era tutto ciò che cercavo. Con il passare del tempo però anche questa terapia perse d’efficacia.

Fu più o meno nel periodo fra Angelica e Luca quando capii che non riuscivo più a stare bene sotto nessun soffitto.

 

Continuavo a passare la maggior parte delle notti fuori casa nonostante non stesse funzionando più come prima, perché svegliarsi sotto un soffitto nuovo è sempre meglio che svegliarsi sotto uno che conosci bene.

Questo finché non sono stata adescata da Ruler.

Nessuno sa il suo vero nome e chi lo sa non te lo viene di certo a dire. In realtà non è stato lui a trovarmi ma una delle sue amiche, o per meglio dire una delle sue seguaci. Come spesso accade, un attimo prima sei abbagliata dalle luci verdi di un neon che si muove a ritmo di musica techno e l’attimo dopo una ragazza vestita solo di pelle e nastro isolante nero ti dice «Ciao bella, come ti chiami? Io sono Eva.»

Ok, a pensarci non accade poi così spesso.

Questo tipo di serate scorre veloce come una serie di fotogrammi montati assieme ma non abbastanza vicini da poterli definire un film. Le immagini appaiono a una frequenza tale che ti permette di cogliere il senso generale ma non tutte le scene. Finché non mi ritrovo nella vila del Ruler assieme a Eva e a un’altra tipa di cui dovrei ricordare il nome. Ho molto più alcol in corpo e molti meno vestiti addosso.

Ruler sembra gentile e sensibile a differenza di come potrebbe far intendere il suo soprannome, o la quantità di oggetti acuminati, corde e fruste presenti nella stanza. Questo è sicuramente un soffitto che difficilmente dimenticherò, penso.

La mia recente esperienza in fatto di soffitti mi ha portata molto lontano da quella che ero solo sei mesi prima, ma nulla in confronto a queste persone che sembrano vivere su un mondo completamente diverso.

Mondo che avrei presto iniziato a conoscere, e per presto intendo in un preciso momento che si colloca fra Eva che dice:

«Dai bevi questo, così ti sciogli un po’»

e la ragazza senza nome che commenta

«Raga ma secondo voi sta bene?»

 

Dopo aver bevuto il drink per “sciogliermi un po’” il mondo inizia gradualmente a sfocarsi, come quando entri in acqua e guardi attraverso la superfice. In un primo momento ricordo di aver avuto paura poi ho sentito le mani calde di qualcuno che mi accarezzano e la voce di Ruler che sussurra «tranquilla sei assieme a noi non ti succede nulla» che non è esattamente quello che dovrebbe tranquillizzare una ventenne strafatta a chissà quanti chilometri da casa, ma tant’è, ha funzionato. Ero tranquilla. Stavo bene.

La parte più bella è quando arrivano i colori. Prima lungo le superfici degli oggetti poi attorno alle persone poi le linee diventano sempre più spesse finché tutto è ricoperto da sfumature accese e anche se la stanza è completamente buia sai che quei colori sono sempre stati lì solo che non eri ancora in grado di vederli. Ho risvegliato sensi che non sapevo di avere e facendolo ho visto soffitti che prima non ero neanche in grado di immaginare. La magia gradualmente finisce.

Quando tutto torna alla normalità o, meglio, ciò che credevo fosse la normalità, Eva ha i miei vestiti in mano e dice «Dai ti accompagno io a casa» mentre poco distante ragazza senza nome sta strillando allo stimolo di un frustino usato dal lato del manico da Ruler che la masturba con indosso solo un passamontagna. La cosa non mi provoca né disagio né eccitazione, li saluto come se stessero giocando a briscola e vado via. Tutto ciò che a cui riesco a pensare è quel soffitto meraviglioso. Il resto è totale apatia.

 

A Fra non racconto quello che è successo, non tutto almeno. Posso già immaginarla a farmi la predica “Quella roba ti brucia il cervello” direbbe. Chi non c’è stato non può sapere di cosa parlo. Per contro da quel giorno ogni soffitto sembrava ancora più cupo e ogni mattina era ancora più deprimente. Tutto il mondo era spento al confronto di quell’esperienza. Una grande scatola grigia che nasconde la vera bellezza.

Mi trascino attraverso la mia routine per tutta la settimana. Sopravvivo ai corsi di fotografia a qualche aperitivo con i compagni di corso e perfino a due giornate in palestra. Se non sbaglio, una volta ho addirittura fatto la spesa. Quando finalmente arriva il fine settimana in maniera molto casuale scrivo a Eva per sapere che cosa faranno quella sera.

Fotografia successiva.

Io che cerco di ricavarmi un outfit all’altezza di quello che utilizzano loro, come fosse una festa a tema in cui il tema è essere semi-nudi.

Fotografia successiva.

Io e Eva al bancone del bar, tutti ci guardano, ordiniamo due gintonic.

Fotografia successiva.

Io, Eva, Ruler e un’altra coppia dietro al DJ a goderci la festa da una postazione privilegiata.

Fotografia successiva.

Una foto di gruppo, siamo tutti svestiti nella villa di Ruler e io chiedo se hanno ancora la roba dello scorso fine settimana.

Un ragazzo che al locale non avevo notato tira fuori da un marsupio una bustina di plastica grande quasi quanto un pacchetto di sigarette colmo di una roba violacea e poi mi versa un bicchiere d’acqua «Tieni fai tu.» dice poggiando il bicchiere su un tavolino e facendolo scorrere verso di me assieme alla busta di polvere magica.

Non ho la minima idea di quanta ne serve ma non voglio sembrare inesperta e chiedere indicazioni altrimenti potrebbero non farmela più provare. Considero che la busta sia da dividere per tutti e otto i presenti in parti uguali, calcolo a occhio la mia parte e la verso nel bicchiere.

Il colore è molto più scuro e il sapore molto più amaro rispetto all’ultima volta.

Bevo tutto in pochi sorsi per non assaporarla.

Restituisco al ragazzo la sua bustina che la guarda sconvolto e poi guarda me.

«Ma quanta ne hai presa?»

Prima di poter elaborare una risposta la stanza attorno a noi inizia a sciogliersi. Molto più rapidamente della scorsa volta.

Non credo di avere più le gambe o le braccia.

Seguono lunghissimi minuti, forse ore, il tempo non ha molto senso qui. Tutto ciò che c’era si è frantumato per formare pattern infiniti di bellissimi soffitti. Perfetti, armoniosi, colorati e lucenti.

La percezione fisica è qualcosa di cui ho smesso di preoccuparmi ormai da un po’ anche se ogni tanto avverto che qualcuno mi sta scopando.

Non mi interessa chi sia.

Dove lo stia facendo.

Oppure con cosa.

Tutti gli stimoli sono canalizzati nel vedere altri disegni che continuano a sovrapporsi e scorrere, ondulare, mescolarsi.

Mai visto niente di così bello.

Presto avrei scoperto che sarebbe stata l’ultima volta.

C’è una piccola finestra fra quando hai ancora risvegliato i sensi necessari a vedere i soffitti colorati e quando stai tornando nel mondo che qualcuno chiamerebbe “reale”. Con quella finestra puoi decidere se affacciarti nel mondo da cui provieni o restare ancora un po’ dove sei. Come quando ti svegli ma rigirandoti dall’altro lato del cuscino cerchi di dormire ancora un po’ e continuare il sogno. Quando quella finestra si è aperta, ho intravisto degli uomini in divisa. Un messaggio abbastanza chiaro da spingermi a tornare indietro. I poliziotti stanno rovistando ogni angolo mentre io sono nuda sotto una coperta su un lettino in pelle al centro della stanza. Mi sento sporca e non voglio neanche sapere di cosa. Ruler mi guarda con occhi ricolmi di profondo disprezzo mentre viene ammanettato.

Il suo sguardo ricorda quello di un padre deluso, uno di quegli sguardi che uno volta incrociato rovinerà i tuoi soffitti per sempre.

 

La cosa peggiore non era il soffitto della cella. Seppur terribile, sia chiaro. La cosa peggiore era tutto il resto. Ogni cosa, ogni singolo particolare, ogni persona, ogni parola era grigia. Se i suoni avessero un colore sarebbe cenere e se i sapori ne avessero uno sarebbe fumo. A quanto pare, qualcuno dei vicini ha deciso di fare un dispetto a Ruler e chiamare la polizia con la scusa della musica troppo alta. Pare che io sia rimasta strafatta per almeno altri venti minuti dopo il loro arrivo demolendo ogni ragionevole dubbio sulla presenza di sostanze stupefacenti. Poche ore e molte domande dopo mi hanno lasciata andare. Il problema a quel punto era: andare dove?

Le prediche di Fra erano l’ultima cosa che avrei voluto sentire in quel momento. I miei ovviamente non avrebbero dovuto sapere mai nulla di questa storia. Penso che a un certo punto sarebbe stato saggio contattare un avvocato ma solo l’idea di fare qualcosa di così “reale” e “logico” mi dava la nausea.

Provo a chiamare Eva che al terzo tentativo risponde urlando «Ma sei pazza? Non provare più a chiamare questo numero! Noi non ci siamo mai viste.»

 

Stavo bruciando un toast che sarebbe stata la mia colazione quando richiamai l’avvocato che anni prima mi mise fuori dai guai, per qualche motivo il fatto che fosse una donna mi tranquillizzava. Lei mi consigliò un suo collega dicendo che è il miglior avvocato divorzista della zona.

So già che tutti daranno la colpa a me.

Ma io ci ho provato.

Davvero, ci ho provato.

Ho provato a amare un uomo con la testa sulle spalle che ogni mattina indossa una camicia stirata da me per andare in ufficio. Ho provato a avere un lavoro, a comprare casa, a essere amica dei vicini e ho perfino sfornato un cucciolo di uomo.
Niente di tutto questo è mai riuscito a togliermi il senso di nausea che provo al mattino quando guardo il soffitto.

E pensare che ho anche aperto un mutuo per pagarlo.

Racconto di Giuseppe Trapasso