“Un momento. Cos’è un momento?
Un attimo fugace nella vita di una persona, che passa inosservato;
Eppure ci sono momenti davvero importanti: che cambiano un intera esistenza.
Basta un momento per dare. Basta un momento per togliere.
Basta un momento per capire. Basta un momento per confondere.
E l’ultimo momento su questo mondo è il più prezioso.”
Si guardava intorno inorridito.
Quella pianura erbosa che un tempo era verdeggiante e piena di fiori ora era ricoperta da un tappeto di cadaveri. Viscere e arti erano disseminati tra terra smossa e spade abbandonate, incrostate di sangue. Lo stesso sangue che inzuppava il terreno rendendolo di un rosso cupo. Il suo sentore metallico impregnava l’aria insieme al dolciastro della putrefazione. Li sentiva in bocca come se respirando i suoi vapori si condensassero su ogni superficie interna del suo corpo, polmoni, gola, denti, palato, lingua.
Non che il suo aspetto fosse migliore di quel macabro spettacolo. Era ricoperto di fango mischiato a sangue, sentiva tra i capelli i fili d’erba insieme alla sporcizia e al sudore. La sua uniforme da battaglia, impregnata del sangue dei nemici che aveva massacrato e dal suo, era ridotta in brandelli cenciosi.
Era coperto di ferite quasi tutte superficiali, la peggiore era un taglio non troppo profondo sul fianco dovuto da una sciabolata. Ogni volta che faceva un respiro sentiva la pelle tirare e bruciare. Un momento di distrazione.
Continuava a camminare in mezzo a quello scempio, cercando di evitare i corpi morti ai suoi piedi. Inciampò e cadde, il suo piede era scivolato tra l’incastro inverosimile di un braccio di un cadavere senza testa e la gamba mozzata da chissà quale corpo. Rialzandosi incrociò lo sguardo vitreo di un commilitone, aveva una smorfia di dolore atrofizzata sul viso grigio. Gli occhi vuoti. Non si ricordava di lui, non si potevano conoscere tutte le persone che componevano un esercito, soprattutto se non eri un patriota votato alla causa. Si ritrovò a sentire pietà per quel ragazzo, perché anche se il dolore e la morte avevano alterato i suoi lineamenti, si capiva che era giovane. Forse era stata la sua prima battaglia e purtroppo l’ultima.
Si rialzò cercando di non guardare cosa stava usando come appoggio per aiutarsi, sentiva solo che era viscido e freddo.
Altri come lui stavano camminando in quella landa insanguinata. Avevano ricevuto l’ordine di uccidere i superstiti nemici e portare in salvo chi aveva avuto la fortuna di sopravvivere a quel massacro. Quell’ordine non gli era mai piaciuto, non perché non gli piacesse uccidere o perché pensasse che non era da uomini d’onore, come pensavano in molti. Lui non era un uomo d’onore e non gli interessava avere un cuore puro o tutte quelle smancerie che la gente usava come pretesto per non fare il lavoro sporco. Era per una motivazione pratica, la putrefazione gli dava il voltastomaco. Si attaccava al corpo dei vivi come la linfa appiccicosa degli alberi che nemmeno l’acqua lavava via, si insinuava nelle narici aggrappandosi ferocemente all’olfatto per giorni e giorni. Ma era il suo lavoro, questo faceva un mercenario. Uccideva per soldi. E quella guerra era solo una delle tante che aveva combattuto. Certo c’era da dire che questa guerra era di proporzioni gigantesche.
Sentì un gemito non molto lontano da lui, strinse la spada che aveva in mano e si avviò velocemente in quella direzione. Vide un movimento con la coda dell’occhio sotto un cadavere. Un uomo con la divisa verde stava strisciando in mezzo al fango e al sangue usando i corpi ammucchiati come nascondiglio per non essere visto. Era un nemico e subito si mise in guardia.
Nonostante il puzzo di morte, fece un lungo respiro. Estrasse il pugnale dalla cintura che portava alla vita. Sorrise assaporando la morte prossima di quel mentecatto che pensava di poter fuggire da quel posto, da quella guerra, da lui.
Senza fare rumore si nascose dietro due cadaveri, calcolò la distanza che lo separava da quel codardo che strisciando lasciava la scia del proprio corpo sul terreno viscido. Come un verme.
Bastò un momento. Prese la mira e lanciò il pugnale. Questo roteò e si conficcò nel collo dell’uomo. Vide il sangue zampillare copioso sul terreno colorandolo di un nuovo strato scarlatto, fresco, in contrasto con il vecchiume rugginoso colato dai cadaveri ormai duri come carne di volatile.
Ci vollero alcuni secondi prima che le contrazioni e i gemiti strozzati di quel corpo destinato ad aggiungersi a quelli già disseminati li intorno si interrompessero.
Si alzò e si diresse verso di lui, vide che lo aveva centrato al lato del collo, recidendo l’aorta e dandogli una morte orribile. Estrasse il pugnale facendo fuoriuscire altro sangue che già andava coagulandosi sul terreno. Pulì il pugnale sulla sua schiena e continuò la ricerca senza degnare di un altro sguardo quel corpo senza vita.
Erano due giorni che andava avanti questa battaglia, per lui era solo una guerra come un altra. Uno dei tanti lavori. Ma iniziava ad essere stanco. Stanco di ferite, dolori e perdite. Non doveva neanche essere lì in quel momento. Aveva risparmiato abbastanza denaro per comprare un piccolo pezzo di terra dove avrebbe costruito una casetta per lui con l’intenzione di vivere il resto dei suoi giorni in tranquillità. Non era tipo da famiglia felice quindi niente moglie o figli, anche se era possibile che sparsi qua e là avesse qualche suo marmocchio con la sua brutta faccia o il suo carattere intrattabile.
Un suo amico e collega gli aveva proposto di accettare quel lavoro. Si erano incontrati in una locanda per caso, lui aveva appena finito un lavoro con la ricompensa più alta che avesse mai ricevuto e stava festeggiando. Aveva rifiutato più volte la sua proposta, ma tra un bicchiere e un altro si era ubriacato e alla fine aveva accettato. Un momento di debolezza. Lo aveva convinto dicendo che avrebbe avuto anche un bel gruzzoletto da custodire nella sua casa pulciosa.
Un altro gemito lo strappò dai suoi ricordi. Questa volta strozzato e gorgogliante. Scavalcò due cadaveri fatti letteralmente a pezzi e aggirò un grande masso ricoperto di muschio e sangue, rimase scosso da quello che i suoi occhi videro.
Il suo amico, quello della locanda era appoggiato scompostamente a quel masso in una pozza di sangue con le interiora da fuori. Vedeva le budella rosee e insanguinate sparse sulle gambe. Se le avesse fissate a lungo avrebbe visto che fremevano a ogni battito del cuore che stava lentamente rallentando. Ingoiò un conto di vomito. L’amico era ancora vivo, anche se per poco.
Era ormai il tramonto e la luce rossastra donava un po’ di colore al suo viso esangue. Gli si avvicinò lentamente come se avesse paura che un suo possibile scatto lo avrebbe ucciso all’istante. Rimase lì, al suo fianco, guardando il suo petto che si alzava e abbassava sempre più lentamente, scosso ogni tanto da un singulto. Un momento prima di morire, con un filo di voce, il suo amico farfugliò delle parole. Se rivolte a lui o forse al cielo, non lo sapeva e non lo avrebbe saputo mai.
“Un… bellissimo… tramonto”
Un momento dopo era morto. Un rivolo di sangue gli colava dalle labbra aperte. Gli occhi spenti fissi sul quel tramonto rosso sangue.
Non era mai stato un sentimentale, ma vedere un amico di vecchia data morire così, agonizzando tra le sue interiora lo avevo scosso nel profondo.
Rimase un momento di troppo al fianco del suo amico morto. Lui che non aveva mai sofferto per una morte, lui che con la spada la dispensava a chiunque gli si parasse davanti, lui che era circondato da essa come un mantello freddo e putrescente. Non sentì il suo alito accarezzargli il collo, né il rumore dei suoi passi. Sentì solo la carne lacerarsi, le ossa rompersi e il sangue defluire in un momento rallentato fino all’inverosimile. La punta di una spada era fuoriuscita dal suo petto. Sentiva il suo cuore battere lentamente nelle tempie zittendo ogni rumore del mondo, non sentiva altro. Poi la spada venne estratta brutalmente, il momento spezzato e lui spinto sul terreno da un piede sconosciuto. Cadde sulle ginocchia del cadavere del suo amico, tra le sue interiora.
Con uno sforzo disperato, puntellandosi sulle braccia, cercò di rialzarsi. Lo sforzo e il dolore gli fecero vomitare sangue, ma finalmente riuscì a girarsi sulla schiena. Del suo assalitore nessuna traccia. Il dolore al petto era indicibile, faceva fremere i suoi muscoli fino alle ossa come un fuoco che da dentro lo stesse consumando a grande velocità. E con la stessa velocità sentiva il sangue fluire via dal suo corpo inesorabilmente. Lentamente il freddo, iniziando dagli arti, risalendo per le braccia e le gambe e invadendo il suo busto, si impadronì di lui. Rimase solo quel calore bruciante nel petto, il resto non lo sentiva più. Questa era la morte, fuoco e ghiaccio.
Si ritrovò, come il suo amico prima di lui, a guardare il cielo. Quel cielo punteggiato di nuvole rosso fuoco che lentamente sfumava in arancione, seguito dal rosa tenue bordato di viola. Le nuvole che creavano quasi una linea curva perfetta, dividevano quei colori caldi dal blu che si estendeva sempre più scuro in quel cielo, incupendosi ogni momento di più man mano che il sole calava inesorabile dietro l’orizzonte. E proprio in quel momento pensò a se stesso bambino, quando veniva frustato dal suo padrone, un uomo grasso e puzzolente che gli rinfacciava ogni giorno della sua vita che era stato lui a salvarlo dalla strada, a dargli un tetto e del cibo. Ricordò della libertà che aveva provato dopo che lo aveva fatto a pezzi con l’ascia che usava per tagliare la legna, di quanto aveva riso vedendo il sangue schizzare sulle pareti di quella casa maledetta. Di come aveva intrapreso il cammino del mercenario, facendo da assistente a un uomo che della morte aveva fatto la sua sposa. E di come aveva ucciso anche lui dopo che aveva imparato tutto quello che gli serviva per essere l’uomo che era adesso.
Non sapeva quante persone avesse ucciso, a lui non importava, non portava il conto per vantarsi come facevano altri mercenari. Lui, che non aveva neanche un nome, non aveva bisogno di queste cose.
Iniziò a pensare: se quella notte mentre era ubriaco non avesse accettato questo lavoro forse adesso starebbe costruendo la sua casetta. Se non avesse mai conosciuto il suo amico forse non sarebbe morto con le budella da fuori in quel posto perché era stato lui stesso a farlo entrare in quel mondo di morte. Se non avesse ucciso il suo padrone forse non avrebbe incontrato quel mercenario che lo aveva trovato per strada con ancora addosso i vestiti impregnati del sangue di quel maiale. Se non fosse stato raccolto da quella orribile persona per strada ma da altre, più gentili ora forse avrebbe avuto una famiglia e dei figli e anche dei nipoti, perché no. Un pezzo di terra tutto suo, avrebbe fatto il contadino, chi lo sa. Rise di quel pensiero e delle bolle di sangue si formarono nella sua bocca facendolo tossire. Il bastardo che lo aveva pugnalato gli aveva perforato un polmone. E rise di se stesso, non rimpiangeva nulla della sua vita, in ogni momento lui era dove doveva essere a fare quello che gli riusciva meglio. Un mietitore oscuro come la sua anima.
Il freddo lo avvolse come una coperta. Anche quella piccola brace nel petto si era estinta. La sua vista stava iniziando ad offuscarsi o era il cielo che improvvisamente era diventato nebbioso e vacuo. Il sangue gli inondò la bocca facendolo soffocare.
Era quasi finita. Ormai non sentiva più il suo corpo e i pensieri iniziavano a scivolare via come aveva fatto il suo sangue dalla ferita. Alla fine aveva sempre sentito nel suo cuore che sarebbe morto così e non di vecchiaia in un posto tranquillo. Alzò il suo sguardo al cielo che era diventato quasi nero, le stelle facevano capolino tra le nuvole. Ma alla fine scomparvero anche quelle. Ora era solo tutto nero. La vita scivolava via di momento in momento. Il suo ultimo pensiero fu per rispondere al suo amico.
“Il tramonto più bello di tutti”
–
Racconto di Giada di Santo.
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