Tratto da fatti realmente accaduti.
29 maggio 1453
Costantinopoli
Maometto II osservava compiaciuto l’assalto dei suoi soldati alle mura di Costantinopoli, sapendo che quel giorno la città sarebbe caduta, sotto un cielo turchese macchiato da soffici e grandi nubi bianche.
Erano passati cinquantasette giorni dall’inizio dell’assedio, da quando la sua armata aveva bloccato la città dalla terra e dal mare. Il giovane sultano aveva dato ai bizantini la possibilità di arrendersi in cambio della vita, ma in risposta aveva ricevuto una missiva scritta dall’Imperatore della quale si era impresso nella mente le parole: “Darti la città non è decisione mia né di alcuno dei suoi abitanti, abbiamo infatti deciso di nostra spontanea volontà di combattere e non risparmieremo la vita.”
Aveva ammirato quelle parole, davvero coraggiose vista la situazione, ma era soltanto il canto di un cigno morente, che cercava di rimanere aggrappato alla vita a ogni respiro.
Quella città era diventata un’ossessione per il giovane Sultano, aveva resistito a innumerevoli assedi, come una bella donna respinge i corteggiatori indegni, ma lui l’avrebbe avuta a qualunque costo. Aveva speso fiumi d’oro per assicurarsi un esercito all’altezza di quel ciclopico scontro e i cannoni più potenti che l’uomo avesse mai forgiato, necessari per martoriare le fortificazioni bizantine.
Quella notte aveva lanciato all’attacco le sue truppe più leggere per tenere impegnato il nemico, stancarlo, e sentiva che era arrivato il momento di prendere ciò che gli spettava.
Disse all’ufficiale che stava dietro di lui: «Mandate i giannizzeri.»
«Vostra eccellenza, il nemico ha preso la porta di San Romano…» la voce tremante della staffetta sovrastò a fatica l’eco della battaglia, che colmava le orecchie dei presenti, ma chi udì quelle parole divenne sordo d’improvviso perché troppo impegnato a pensare a ciò che li attendeva.
Un dignitario, vestito più per una festa che per una battaglia, si avvicinò all’Imperatore mormorando: «La città è perduta, dobbiamo mettervi in salvo, ora o mai più.»
Costantino XI stava in piedi qualche passo più avanti rispetto al reparto della Guardia Variaga, le sue guardie del corpo, osservando l’orda nemica che urtava contro gli scudi dei difensori, in un ultimo e disperato tentativo di sovvertire le sorti dello scontro.
L’Imperatore non badò alle parole del dignitario, sentiva che quel momento che stavano vivendo sarebbe stato un punto di svolta per il mondo intero.
Si trovavano su un’altura che permetteva di osservare le grandiose mura di Costantinopoli in quasi tutta la loro lunghezza. Teneva le mani allacciate dietro la schiena, sopra il mantello purpureo che gli copriva gli spallacci dell’armatura e osservava assorto, ripensando a come si era giunti a quel giorno.
Da quando l’esercito nemico si era accampato fuori dalle mura, erano stati bombardati con ferocia da armi diaboliche. Gli ottomani avevano decine di bombarde, ma una era tanto grande che necessitava di cento buoi per essere trainata, sparava soltanto una manciata di colpi al giorno, ma i danni erano terribili. Di giorno il nemico bombardava, di notte gli abitanti di Costantinopoli riparavano le brecce. Il giovane condottiero ottomano aveva lanciato all’attacco i suoi soldati più volte, senza successo, i combattenti di Bisanzio si erano battuti con le unghie e con i denti. Per difendere le proprie case, i propri cari.
Uno straripante fragore giunse fino a loro, sulla torre della porta di San Romano era stato innalzato il vessillo rosso con la mezza luna, quello avrebbe reso il nemico ancora più avido di gloria e sangue. I presenti osservarono la bandiera malridotta agitarsi nel vento teso, provocando in loro un moto di odio e d’ira.
Per più di mille anni le mura erette da Teodosio II, le più impotenti che il mondo avesse mai visto, avevano respinto l’assalto dell’oriente e protetto la città, ma chi le aveva costruite non poteva certo prevedere quali terribili armi l’uomo sarebbe stato capace di inventare, strumenti il cui suono faceva annichilire il rombo e la forza del tuono.
Quell’assedio non li aveva certo colti di sorpresa, avevano avuto più di un anno di tempo per prepararsi, ma i nemici erano semplicemente troppi. Per ogni soldato di Bisanzio ce n’erano più di dieci ottomani. Costantino aveva chiesto aiuto all’occidente e al Papa, ricevendo tante promesse ma pochi aiuti concreti, qualche contingente da Genova, Venezia e Napoli, nessun altro aveva risposto alla chiamata alle armi.
Non si rendevano conto, davvero non si rendevano conto della forza distruttrice che si sarebbe scatenata quando l’Impero Bizantino sarebbe stato conquistato.
Anche se chiamarlo Impero era ormai diventato un gesto generoso, il territorio che controllava non era che un fazzoletto di terra rispetto agli albori.
No, non aveva senso fuggire, la sua nazione sarebbe morta quel giorno e lui con essa.
L’Imperatore si voltò verso i suoi soldati e disse con voce stentorea: «So che potrei vivere se abbandonassi la città, ma non posso farlo… non vi lascerò mai. Ho deciso di morire con voi!»
La Guardia Variaga ammirava il proprio protetto, quei duri uomini del nord avevano visto in lui le doti dei grandi condottieri del passato, saggezza e senso del sacrificio, che si andavano perdendo negli uomini che governavano le genti; sapere che si sarebbe battuto con loro fino all’ultimo alleggeriva il fardello di morte che portavano nei loro cuori.
Costantino calzò l’elmo e imbracciò il magnifico scudo bordato d’oro, dicendo ai propri servi: «Andate dalle vostre famiglie, passate con loro il tempo che vi resta, non ho più bisogno dei vostri servigi.»
Detto questo cominciò a camminare a passo deciso, seguito dalle guardie che si mossero senza il bisogno che nessuno glielo ordinasse.
Il boato della battaglia cresceva a ogni passo, si iniziavano a distinguere le urla e il clangore delle spade insieme agli scoppi delle colubrine e delle bombarde che ancora non tacevano. La mente di Costantino continuava ad arrovellarsi sul significato di quel giorno. Lui era l’ultimo, legittimo imperatore discendente diretto di Augusto e Marco Aurelio. Chiunque si fosse fregiato di quel titolo dopo di lui non sarebbe stato che una pallida imitazione, fatta per richiamare i fasti di un’epoca gloriosa, ma ormai sepolta dalle sabbie del tempo. Nessun altro impero avrebbe mai potuto eguagliare ciò che Roma fu.
Pensò al Sacro Romano Impero, nato dalle province germaniche, che di romano portava solo il nome. Quello era solo il primo esempio di ciò che, ne era certo, sarebbe accaduto nei secoli a venire: frotte di condottieri avrebbero fatto di tutto pur di essere paragonati a quella gloria, quel potere, a quello sfarzo. Ma non basta certo farsi chiamare Cesare per esserlo.
Si riscosse dai suoi malinconici ragionamenti quando un soldato ferito lo urtò, stava fuggendo e il volto era una manifestazione di puro orrore, gli occhi allucinati, il volto esangue, non si rese nemmeno conto di chi avesse di fronte e disse con un filo di voce: «Giannizzeri… sono troppi…» e riprese a correre a perdifiato. Più si avvicinavano al fulcro della battaglia, più gli edifici intorno a loro mostravano i segni lasciati dai lunghi giorni di assedio, come di una bestia furiosa e gigantesca che aveva imperversato tra le case e i vicoli, fracassando e bruciando. Qua e là le macerie ingombravano la strada, soldati moribondi stavano sdraiati per terra o con la schiena appoggiata al muro e chi ancora non era morto gemeva, urlava e pregava. Pregava non per la salvezza, ormai impossibile, ma per una fine indolore.
Quella vista scosse Costantino che sentì il suo coraggio vacillare, come un obelisco di pietra intaccato alle fondamenta, e si fermò. Si voltò verso le sue guardie e ne studiò i volti dagli occhi traboccanti di bellicosa ira, bramavano lo scontro.
Lo sguardo si spostò sullo stendardo schierato in prima linea, l’aquila nera con le due teste in campo giallo, era mosso dal vento che arrivava dal mare portando il frizzante odore di salsedine che tanto amava. Gli ricordava i giorni spensierati dell’infanzia quando non aveva il peso di un intero popolo da reggere sulle spalle. Da bambino non aveva mai immaginato che avrebbe vissuto un giorno come quello, un glorioso giorno di morte.
Come Leonida e i suoi spartani, si mise a marciare verso un nemico troppo numeroso, che sapeva di non poter battere, sapendo però che il proprio sacrificio sarebbe stato d’esempio e avrebbe ispirato gli eserciti dell’occidente, che presto sarebbero stati chiamati a battersi contro quello stesso nemico. Si ricordò anche dello scempio che venne fatto del cadavere del re spartano.
«Gettate le insegne, combatteremo e moriremo come comuni soldati!» L’ordine di Costantino percorse la colonna e i preziosi stendardi vennero gettati ai lati della strada come vecchi stracci logori e scoloriti.
Negli attimi prima dello scontro, Costantino realizzò di avere un solo rimpianto: quello di non aver avuto una famiglia, perché troppo impegnato a governare. Era stato proprio quell’assedio a impedirgli di sposarsi, di avere una moglie e un figlio. Ma forse era meglio così, chissà, forse non avrebbe avuto la forza di scegliere di morire insieme ai suoi uomini se avesse dovuto pensare alla famiglia.
Tutti quei pensieri che rannuvolavano la sua mente si dissiparono quando davanti a lui vide una schiera di nemici muoversi verso di loro, Costantino alzò la punta della spada al cielo turchese, diede l’ordine della carica e si lanciò verso il suo destino.
«Fate largo al conquistatore di Costantinopoli!» Il Sultano era accompagnato dal seguito agghindato per celebrare la vittoria. Aveva varcato la Porta Aurea sentendosi potente come un dio e dai soldati era giunta la voce che era stato trovato il corpo di Costantino, non poté resistere dal dare un’ultima occhiata al nemico che aveva fronteggiato per settimane.
Il cavallo nero di Maometto calpestava gli innumerevoli cadaveri di soldati e cittadini sparsi per le strade già ingombre di macerie, qualcuno si muoveva ancora.
Un assembramento di giannizzeri si schiuse come un fiore per mostrare al loro signore ciò che avevano trovato. Tra i cadaveri degli uomini norreni che componevano la temuta Guardia Variaga, si scorgeva il cadavere di un uomo che portava mantello e stivali purpurei, il segno distintivo dell’Imperatore. Il Sultano scese da cavallo con grazia e con fare solenne si avvicinò al cadavere.
La spada del bizantino, che ancora stringeva in pugno, era incrostata di sangue e così la splendida armatura, il volto era deformato da una smorfia di rabbia, o forse di dolore; gli occhi erano socchiusi.
Il condottiero ottomano inspirò profondamente assaporando con gusto il puzzo della guerra, il profumo della gloria.
«Fratelli miei…» i soldati si strinsero in cerchio attorno a lui desiderosi di ascoltare ogni parola. «Avete combattuto bene, Costantinopoli, la più grande città dell’occidente, è nostra! E da oggi il mondo mi conoscerà come Sultano dell’Impero Ottomano e…» gli occhi dei giannizzeri brillavano d’orgoglio per sé stessi e il loro comandante. «Cesare dei Romei!»
Un’acclamazione di folle giubilo seguì quelle parole, riecheggiando tra le strade deserte.
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