Mi strofino le palpebre.

Più che altro vorrei capire quanto tempo ci ho passato davanti al monitor. Oddio, ci lavori qui, dovresti saperlo, no? I turni, poi, sono di quanto? Otto ore?

Il problema però è che il turno l’ho finito da almeno quattro, quindi quanto tempo ci ho passato davanti?

Ti fa male la testa, ed è normale, no? Vorrei vedere. Chiunque dopo dieci ore passate davanti a un cazzo di computer a riportare dati su dati, pratiche su pratiche, moduli su moduli. Tutti numeri che poi alla fine nemmeno mi ricordo a che diamine servono. Stamattina, poi, Edith ha di nuovo fatto incazzare gente giù all’accoglienza, quella stupida vecchia e scema. Vecchia e scema proprio.

È inaccettabile che un servizio pubblico risponda in modo così volgare ai cittadini che pagano le tasse!” si legge poi su google reviews. Ma Vaffanculo! Vai a farglielo capire a quei coglioni che non è colpa di tutto il cazzo di personale dello “State Island Code Enforcement”, ma solo di una vecchia zitella che puzza di piscio e scassa le palle a chiunque. Ma perché non può tornarsene a casa prima? Così si guarda The View in santa pace e la smette di gettare fango su tutti i colleghi.

Fanculo Edith e fanculo ‘sti dati, allora. Okay, mi sa che devo alzarmi un attimo. Lo faccio e per poco non me ne casco a terra per il giramondo. Dalla finestra dell’ufficio, a quest’ora, si vede la Statua illuminata di notte. Certo è un po’ lontana, in foto farebbe cacare, si vedrebbe giusto un puntino un po’ più luminoso degli altri, ma a occhi si vede bene. Si vede davvero bene se sai dove puntare lo sguardo.

Dio, che mal di testa. Forse dovrei proprio staccare.

No. No, è ancora troppo presto. Se stacco adesso mi tocca tornare a casa e sentire quella rompipalle di Debra che si mette a urlare contro Tracey e su tutte le puttanate che combina quando si chiude in camera sua. Diamine, quelle due sono impossibili, sono davvero impossibili.

Fai il padre, è tua figlia! Dille qualcosa!” sempre a strillarmi contro, quella cretina.

Che poi io nemmeno me la volevo sposare, figurati farci una figlia. Per carità, le voglio bene, non sia mai che si possa dire il contrario. Ma quante seccature mi sarei potuto risparmiare se me ne fossi andato in Ontario con Beverly, come mi aveva chiesto tanti anni fa. Ah, diamine, chissà dove sarà, adesso. Anzi, chissà con “chi” starà… una gnocca come lei.

Sicuramente con qualche motociclista.

La macchinetta del caffè non funziona da un’ora, e in questo momento Dio solo sa quanto ne vorrei prendere uno. Potrei andarmene al Chaco Taco qui sotto, sulla Richmond, ma se scendo allora tanto vale che io spenga e chiuda tutto e me ne ritorni a casa, tanto.

Philips me lo dice sempre. “Sei uno Stakanovista!“. Che poi che diamine vuol dire?

Questo suono ha proprio rotto le palle.

Ma che poi da dove viene? Aspetta. Aspetta, fammi sentire un attimo.

Di nuovo.

È sottile, lontano. Sembra tipo un qualcosa di appeso che oscilla. Fischia come l’incavo di ferro di una porta, con molto poco olio. Non riesco a capire se viene da fuori, oppure da dentro. Forse Carmela ha lasciato la porta-finestra aperta quando è andata a fumare. Sì. Diamine, quella pensa che noi non c’abbiamo l’occhio per certe cose, ma io la vedo sempre a mettersi su quel terrazzo lì a fumare, mentre invece dovrebbe starsene a passare gli strofinacci a terra, con la faccia poggiata al pavimento.

Questi messicani sono tutti uguali.

Che poi la verità è che io sono troppo buono. Questo è la verità. Sai cosa dovrei fare? Glie lo dovrei proprio dire al capo. Già, Dovrei proprio dirglie…

Ancora.

Aspetta, aspetta un attimo. Un attimo.

Dio che nervi, lo ha fatto di nuovo! Sembrava pure più forte a dire la verità. No, aspetta. Non è che era davvero più forte, è solo che ho cominciato a pensarci troppo, e quindi mi “sembra” più forte, anche se non lo è.

Lasciamo perdere, non ho voglia di controllare. Adesso spengo il PC e me ne torno a casa. Se Tracey e Debra stanno litigando mi sdraio sul divano a guardare il football e chi s’è visto s’è visto. Non ho voglia di perdere tempo con le loro stronzate.

Mi siedo e salvo i file prima di chiudere.

Mi fischia un orecchio adesso.

«Pure».

Mi ci porto un dito e smuovo la mandibola, ma incomincia a fischiarmi anche l’altro. Perché adesso poi?

Oddio.

La porta dell’ufficio davanti a me è aperta e da lì c’entra solo buio, ma non così tanto buio da convincermi di non aver visto quello che ho appena visto.

Perché l’ho visto.

Perché per un attimo mi si blocca il petto e mi è venuta la scossa alla schiena, e queste cose non le puoi ignorare.

Perché l’ho vista muoversi.

È passata davanti alla porta, veloce, ha svolazzato come un panno steso al balcone.

«Ma che cazz…».

Le orecchie continuano a fischiarmi, nelle cosce e nelle ginocchia è come se ci fossero formiche.

Mi alzo piano. Molto piano.

«Carmela? Carmela ma sei tu?».

Ma non risponde nessuno. Solo buio. Buio e silenzio.

«Carmela!» grido più forte, ma niente. Solo quell’oscillare. Solo quel suono stridulo di tanto in tanto. Il fischio nelle orecchie.

Mi avvicino alla porta aperta. Piano. Molto piano. Perché qualunque cosa ci sia dall’altra parte non deve sentirmi.

Mi poggio con le mani sul bordo dell’uscio, Dio quanto cazzo è buio. Mi affaccio con il muso e mi giro a destra, dove quella donna che assomigliava a un panno al vento si è gettata di corsa.

Ed è lì.

È ferma. In piedi. Sta fissando la stampante lì davanti con la testa ricurva. Ha i capelli corti fino alle spalle.

Dondola.

Tiro indietro la testa, mi copro le labbra con la mano. Gli occhi mi gocciolano un po’.

Oddio santissimo. Ma chi cazzo è? Perché sta ferma lì?

«Carmela…» sussurro quasi.

Le orecchie smettono di fischiare. Il suono metallico mi sa che è sparito. Ora ce n’è un altro. Un battito. Un tamburo. Un eco lontano, davvero lontano. Lontanissimo. Lo sento appena, ma lo sento.

Corro di nuovo dentro e m’appoggio alla vetrata. La luce di Staten Island mi brilla sotto i piedi, i palazzi e le case sono pieni di luce, pieni di vita, pieni di persone.

No, non può essere. Ho visto male, devo aver visto male per forza. Me lo sono sognato, cazzo. Insomma, e dai! Non può essere possibile, no?

Prendo lo smartphone e me lo metto in mano.

«Guarda che sto chiamando la polizia, capito? Devi dirmi chi cazzo sei o giuro che chiamo la polizia!»

Mi aspetto una risposta. Una qualsiasi. Mi aspetto un gemito, un’esclamazione, qualcuno che mi dica che sto esagerando. Ma niente. Solo silenzio. Buio e silenzio.

Mando giù un groppo di fifa e mi rifaccio piano al corridoio. Mi sporgo col muso, di nuovo, verso la stampante, aspettandomi di vedere solo il buio della notte e nient’altro. Perché non può e non deve esserci nient’altro.

Ma quando mi giro, lei è ancora lì.

Oddio.

Con la mano cerco l’interruttore della luce del corridoio. Il buio gioca strani scherzi. Strani scherzi. Se accendo la luce, magari…

Lei dondola… perché sta dondolando?

Trovo l’interruttore ma non si accende. Non si accende, e quella tizia sembra come…

No, non può essere, non può essere per niente!

Mi rifaccio nell’ufficio e mi getto sulla scrivania. Casca tutto per terra. Documenti, faldoni. Tutto per terra. La tastiera, i fogli, le graffette, le penne, le matite. Tutto, tutto per terra con un fracasso infernale.

Oddio, mi avrà sentito?

«Stava volando… cazzo. Cazzo, quella lì stava volando!»

No, Mike! Sei fatto di lavoro! Dici cazzate! Ti fa male la testa! È normale, no? Dopo tutte quelle ore passate davanti al PC, uno si rimbambisce, no? È normale cazzo, no?

La pistola.

Devo prendere la cazzo di pistola. Mi scrollo dalla scrivania e corro nell’armadietto di Philips, lo apro di getto fregandomene di fare attenzione e mi metto a cercare tra le scartoffie, fino a ché sotto a tutti quei fogli e a quelle cartelle vuote, finalmente la trovo.

Controllo subito il caricatore. Bene, è carica. Sgancio la sicura e mi faccio di nuovo verso il corridoio. Piano. Fai piano, cazzo.

«Hey! Guarda che ho una pistola! Ti avverto, cazzo! Ho una Glock 19 carica in mano e la punterò sulla tua faccia di cazzo se non dirai qualcosa adesso, hai capito? Alla prima cazzata che fai te la svuoto addosso! Giuro su Dio che lo faccio!».

Aspetta, forse posso illuminarla. Sì, la luce non funziona ma posso usare la torcia dello smartphone! Sì! Adesso gliela punto addosso e vediamo che succede. Vediamo che succede, cazzo.

Esco di colpo, punto la torcia alla stampante e grido “Mani in alto!”

Ma niente.

Non c’è niente lì. Niente vicino alla stampante. Niente appoggiato alla parete. Niente vicino al vaso con la pianta grassa lì all’angolo.

«Ma… ma che cazz…».

Anzi, a guardare bene, qualcosa c’è in realtà.

Un piede. Con una ballerina nera infilata. Un piede in aria, proprio all’altezza del climatizzatore attaccato alla parete.

Però quel piede fluttua per aria, e affianco a lui ce n’è un altro uguale. Quei piedi stanno sotto a delle gambe. Sottili. Bianche. Storte. Che sono appese al soffitto del corridoio. Quelle gambe sono immobili.

Il suono metallico non lo sento più. C’è un lamento però. Come una voce soffocata da un panno. Come la carotide che gratta su delle corde vocali secche e putrefatte. Un sussurro. Un mugugno.

Urlo, urlo con la pistola in mano e scappo via verso l’uscita. Fanculo tutto, fanculo questo posto! Fanculo la mia roba! Devo andarmene da qui, e anche alla svelta!

In fondo al corridoio, però, vicino all’uscita c’è qualcos’altro.

Un’ombra nera con un lungo cappotto se ne sta ferma in piedi, a pochi metri davanti a me. Tiene le mani avanti. Come se volesse afferrarmi.

Le mani mi tremano, le gambe mi esplodono, gli occhi mi lacrimano e forse non riuscirò a colpirlo bene, ma cazzo devo tentare! Devo andarmene da qui! Devo tornare a casa da Tracey e da Debra! Devo, devo tornare a casa!

«Signore. Si fermi subito!».

Cosa? Ha parlato? Quella cazzo di ombra mi ha parlato?

«Cos… cosa…».

La luce dello smartphone si spegne. Non ora, non adesso cazzo!

«Ma che cazz…».

Mi giro verso la donna fluttuante in fondo al corridoio. Lei è ancora lì. È ferma come una statua mentre mi fissa con quel suo viso, immobile come fosse quello d’una bambola di pezza. Mi fissa con quelle sue mani piegate all’insù. Mi fissa con quelle pupille enormi. Nere, come i suoi capelli.

Mi fissa mentre il suo corpo mi lancia addosso, mentre il suo viso si attacca al mio, mentre le mie gambe cedono al suo peso, mentre le mie orecchie esplodono al suono di quel rauco lamento metallico che viene fuori dai fori nella sua bocca e dalle vene violacee sulla sua pelle.

Mi fissa mentre me la faccio addosso.

Chi è che sta piangendo?

Mi fissa mentre il mio cuore smette di battere.

Cado.

Mi fissa mentre il corridoio s’allontana.

Dio quanto è profondo.

Mi fissa mentre il nero mi avvolge.

Dodici. Venticinque. Zero. Tre.

Mi fissa mentre il nulla mi strozza.

Diamine, non dovevo proprio fare tardi a lavoro, oggi.

Racconto di Tiziano Ottaviani.