L’aria nella roulotte era calda e asfissiante nonostante la porta fosse aperta. La notte era stata umida e la vicinanza al lago Mary Ronan non aveva certo aiutato a smaltire l’afa. L’ambiente era marcio e trascurato, le macchie di sangue e gli squarci nel pavimento e sulle pareti sembravano solo una giusta conseguenza al degrado generale della roulotte.
Due mosche danzavano sopra la buccia di banana a terra davanti al lavandino, attratte dall’odore pungente. Il rubinetto deformato perdeva le sue ultime gocce nei piatti sporchi che sovraffolavano la vasca di vetroresina scheggiata, non del tutto divelta aveva perso solo qualche piatto che si era rotto sul pavimento.
Lo sceriffo Coulson si passò un fazzoletto di stoffa tra collo e colletto della camicia cachi. Di attacchi d’orso tra le foreste lungo il lago ne aveva visti abbastanza nella sua carriera. Quella mattina però era tutto sbagliato. L’enorme chiazza di sangue che si irradiava dal centro della roulotte era più simile a quella che si potrebbe generare da un’esplosione, un po’ come quelle che aveva visto in Afghanistan. Sulle pareti non erano presenti brandelli di carne o altri residui di una qualche ipotetica vittima. Anche le serie di squarci su pavimento e pareti erano anomale. Per prima cosa la direzione dei solchi sembrava andare dalla chiazza di sangue verso la porta divelta. Inoltre gli orsi lasciano cinque segni e non solo quattro, come i lupi. Anche la distanza tra gli squarci era troppa. Come se non bastasse la profondità e la forza necessaria per provocare quei tagli nel legno scadente della roulotte era superiore a quella che può avere un lupo, anche se bello grosso.
Lo sceriffo chinò il capo sul coroner nella sua tutina bianca. Come diavolo fa Martin a stare rinchiuso in quel profilattico per ipocondriaci con questo caldo? “Allora Doc? Qualcosa di interessante?”
Martin sollevò un lungo capello, cercò di metterlo in controluce nonostante le finestre di plexiglas appiccicaticce di grasso fossero più color marrone melma che giallo vomito opacizzato. Nella poca luce il capello sembrava biondo. Il coroner lo mise in una busta trasparente. “Non ne ho la più pallida idea Coulson. Ci sono troppe poche tracce per la quantità di sangue che c’è sulla scena e…”
Tump. tump. Una serie di passi sulla scaletta all’ingresso precedette l’incombere di un’ombra alla porta, interrompendo il coroner. Coulson si girò, la mano di riflesso al financo per sfiorare il calcio della rivoltella. La sagoma netta di un uomo ammantato in un lungo cappotto impediva quasi del tutto alla luce di entrare. Fece un passo avanti, liberando l’uscita. A un secondo sguardo lo sceriffo notò che il lungo cappotto era nero, di lana pesante. Sulla testa portava un cappello borsalino, anch’esso dello stesso colore. Grandi occhiali da sole a goccia gli coprivano gran parte del volto, lasciando scoperto solo il mento sottile e ben rasato.
Coulson rilassò le spalle, ma non scostò la mano dalla pistola. “Lei chi sarebbe?”
L’uomo alzò la mano in un gesto rassicurante mentre metteva l’altra nello scollo del cappotto. Estrasse un portadocumenti che aprì per mostrare un tesserino.
“Salve. Agente Elias Marygold, Mayflower Foundation.”
“Che diamine sarebbe la Mayflower Foundation?”
“Siamo un’agenzia privata di investigazione pro bono per il Governo Federale. Stiamo seguendo un caso che sembrerebbe collegato a quanto successo qui ieri notte.”
“Un’agenzia federale che investiga su attacchi di animali selvatici?”
“Capisco la sua diffidenza sceriffo. Diciamo che abbiamo dei validi motivi per supporre che questo caso ricada sotto la nostra giurisdizione.”
“Puttanate!”
“Aspetti solo un secondo, credo che a breve riceverà una chiamata che le darà tutte le spiegazioni di cui ha bisogno.”
Come invocato dalle ultime parole dell’uomo in nero, il cellulare dello sceriffo iniziò a suonare. Coulson portò la mano alla cintura per sbottonare la custodia in cuoio porta cellulare. Estrasse lo smartphone e, cercando di non perdere d’occhio l’uomo dinanzi a lui, buttò uno sguardo sullo schermo. MAIOR. Lo sceriffo si bloccò a osservare il display, l’icona verde di risposta alla chiamata che pulsava al ritmo della vibrazione. Fece scorrere il pollice sullo schermo mentre portava il telefono all’orecchio.
“Signor Sindaco.”
Un fischio acuto gli riempì l’orecchio. Un dolore acuto gli fece venire un capogiro. Senza nemmeno rendersene conto si ritrovò in ginocchio sul pavimento di legno della roulotte. Un forte senso di nausea lo prese alla gola mentre la vista si andava annebbiando. Senti a stento una mano poggiarsi sulla spalla e la voce affettata di Martin: “Coulson che succede?” poi un grugnito e un tonfo. Le forze abbandonarono del tutto lo sceriffo che si accasciò a terra.

Elias Marygold uscì dalla roulotte. Fece un lungo respiro per liberarsi del tanfo di piatti sporchi e sangue. Scese i gradini di metallo e fece due passi sull’erba nella radura in cui si trovava. Gli abeti intorno al cerchio di prato erano immobili nella calura asfissiante di quella mattina. Si voltò sul posto. Sul fronte della roulotte, di fianco alla porta, un uomo con indosso solo un cappotto di lana nero come il suo era poggiato sul sellino di una bicicletta arrugginita, annaspante. Le ginocchia nude semiflesse con le mani poggiate sopra. Il cappotto sbottonato rivelava la pelle tesa su muscoli fibrosi, schizzata di fango e sangue in vari punti. L’uomo alzò lo sguardo verso Elias, il volto squadrato dalle sopracciglia folte. Gli occhi socchiusi per proteggersi dai raggi del sole che filtravano tra gli aghi degli alberi.
Elias si accese una sigaretta e fece una lunga boccata. “Hai combinato un bel casino stavolta Crane.”
“Lo so capo.”
“Willson non ne sarà affatto contento”
“Lo so”
“Almeno hai qualcosa sulla donna in rosso?”
“Niente capo. Mi è sfuggita.”
“Porca miseria Crane, tutto questo casino per nulla.” Elias fece un’altra boccata di sigaretta. “Andiamocene via, sta arrivando la squadra di pulizia. Non voglio essere qui quando arriveranno quelli!” Gettò la sigaretta al suolo spegnendola poi con la punta delle scarpe di cuoio nere.

 

Racconto di Marco Autorino