Il respiro della morte, condensato sotto forma di coltello a serramanico, soffiava sul mio collo. Il rapinatore mi strinse ancora di più la gola con l’avambraccio e urlò qualcosa in albanese rivolto al compare che, pistola in pugno e viso coperto da una maschera di Carnevale bianca, stava svuotando la cassa numero 2. Respiravo a fatica e la punta del coltello pungeva la carne: un rivolo sottile iniziò a colare sul collo rasato di fresco e si infilò sotto la camicia, facendomi il solletico.

Il rapinatore con la maschera bianca passò all’ultima cassa e puntò la pistola verso la commessa. «Damme soldi, puttana!»

La ragazza aveva la bocca tremante e armeggiò con la chiave della cassa con mano malferma.

Il compare mi strattonò e si avvicinò alla cassa. «Sbrigati, cazzo!» disse in albanese.

Questa volta le parole arrivarono limpide, come se fossero in italiano. Forse avevo l’occasione per farli andare via.

Il rapinatore abbassò la pistola. Si allungò sulla mia spesa sul nastro facendo cadere pacchi di pasta Barilla e un vasetto di maionese, spinse con una manata la cassiera e iniziò ad armeggiare con la chiavetta della cassa. L’aprì e tirò fuori una manciata di banconote, molte delle quali caddero sulla cassiera a terra.

Deglutii e feci un respiro profondo, per quanto la presa intorno al collo me lo permetteva. «Non avete scampo» dissi nel mio miglior albanese. «La polizia sta per arrivare».

Il rapinatore smise di prelevare le banconote e si voltò: i suoi occhi si sgranarono dietro la maschera bianca. «Che cazzo hai detto?» Guardò il suo compare. «Che cazzo ha detto questo?»

Quello premette più forte l’avambraccio sul mio collo. «Non so, qualcosa sulla polizia. Parla albanese, questo stronzo».

Il dolore si fece ancora più acuto. Facevo fatica a respirare.

L’altro rapinatore si avvicinò e mi puntò in faccia la pistola: odorava di ferro arrugginito. «Ci stai prendendo per il culo?»

Feci per raccontargli della mia ex moglie Leda, di come avevo imparato la sua lingua dopo dieci anni di matrimonio e di come se l’era poi spassata con un altro uomo, ma ce la facevo a malapena a parlare.

La sirena di una volante risuonò in lontananza. Allora la polizia stava arrivando per davvero…

Il rapinatore dietro di me mi gettò a terra e si fiondò insieme al suo compare fuori dalle porte automatiche del supermercato. Salirono su una Mercedes grigio opaco parcheggiata fuori col motore acceso, che partì con gli sportelli ancora aperti e sgommò via. Puntellai i gomiti sul pavimento impolverato del supermercato. Menomale che non mi avevano preso come ostaggio sulla loro station wagon.

Una mano toccò la mia spalla. Sobbalzai, una donna dal volto paffuto si ritrasse. «Mio Dio, sta bene?»

Passai la mano sul collo viscido: gocce di sudore e sangue si mescolarono sulle dita. «Sì, è solo un graffio».

«Sicuro?» La signora armeggiò con la sua borsa a tracolla e tirò fuori un pacco di fazzoletti. «Tenga. Tra poco arriva anche l’ambulanza».

Le sirene della polizia si stavano facendo sempre più vicine. Dovevo andare via, non potevo diventare un testimone.

Afferrai il fazzoletto e lo misi in tasca. «Grazie». Mi rialzai, tirai su il bavero del giubbotto in pelle per coprire il sangue, e uscii.

«Ehi, ma dove va?»

L’aria fredda investì il viso e la testa sudata facendomi rabbrividire. Nessuna volante era ancora in zona: forse potevo farcela. Ci mancava solo un interrogatorio della polizia.

Andai via dal parcheggio a passo lento, senza guardare indietro. La gola faceva male quando deglutivo e la ferita al collo bruciava. Non vedevo l’ora di tornare a casa.

 

***

 

La vaschetta della fontanella era ricoperta da coriandoli e stelle filanti che galleggiavano in superficie, come ogni Martedì Grasso che si rispetti. Spruzzai un po’ d’acqua sul fazzoletto della signora e lo passai sul collo; delle gocce colarono sul maglione e sulla camicia, fredda sulla pelle accaldata. Il fazzoletto zuppo diventò rosa. Lo gettai in un cestino e iniziai a camminare verso casa.

Costeggiai la fila di macchine e furgoncini parcheggiati a bordo strada, che occupavano metà carreggiata e costringevano a camminare al centro della corsia di marcia. Un clacson mi fece sobbalzare e una vecchia Jeep sfrecciò invadendo la corsia di senso opposto; un puzzo di gasolio bruciato mi fece rimescolare lo stomaco. Che fogna che era diventata la città. “Da buttare nel cesso e tirare l’acqua”, come diceva De Niro in Taxi Driver.

Un gruppo di ragazzini mascherati da punk, con creste colorate e giacche di jeans strappate, camminava verso di me. Uno di loro si fermò davanti e puntò una bomboletta di schiuma davanti al mio viso. «Mani in alto o sparo!»

Dal gruppo si levò un coro di risate. Il volto del ragazzino, tutto ricoperto di segni e scritte nere, si trasfigurò in quello del rapinatore albanese con la maschera bianca; la punta del coltello a serramanico tornò a premere sul collo.

Il ragazzino agitò la bomboletta e riacquistò la sua fisionomia carnevalesca. «Ho detto mani in alto!»

Finsi un’espressione spaventata e alzai le mani. Il punk fece una smorfia e schiacciò il pulsante della bomboletta, dalla quale uscì solo aria e un lieve odore di gas. Gli altri scoppiarono a ridere e fuggirono via.

«Puoi abbassare le mani, giovane». Un signore anziano, seduto al tavolino di un bar con una copia del Corriere dello sport in mano, scatarrò sul marciapiede. «I banditi sono scappati».

Sorrisi e passai il dorso della mano sulla fronte in un gesto plateale. «Me la sono vista brutta».

Il signore ridacchiò, scoprendo una fila di denti marroni. «Tanto la polizia ora li acciuffa». Fece un cenno col pollice dietro di sé. «Ho sentito che stavano facendo un bel casino, prima».

Il sorriso morì sulle mie labbra e atteggiai il volto a una maschera impassibile: meglio non dire niente a riguardo. «Ah, non lo so proprio». Ripresi a camminare. «Buona giornata».

Passai davanti alla posta, con una perenne fila agli sportelli, e svoltai imboccando la strada di casa, con la familiare puzza di immondizia bruciata. Chissà perché, quell’aroma mi fece tornare in mente il viaggio di nozze a Venezia con Leda. Sarà stato il Carnevale, i marmocchi in maschera o il fatto di essere stato vicino alla morte, ma l’asfalto pieno di buche si trasformò in un canale torbido, il tanfo dei rifiuti si tramutò nell’odore salmastro del mare e, invece di camminare, sembrava di dondolare in piedi su una gondola, con un remo in mano a cantare le pene d’amore per una donna infedele…

Arrivai al cancello di casa e un miagolio mi accolse. Accanto ai piedi, Zanzibar saltò sul muretto e si infilò tra le sbarre di ferro della ringhiera. Allungai la mano per accarezzarla. «Ciao, bellissima!»

La gatta sgusciò via dal mio tocco, miagolò ancora e balzò giù sulle piastrelle di ceramica. Sembrava molto affamata.

Percorsi il vialetto accanto al giardino e salii le scale dell’ingresso. Zanzibar sfrecciò accanto ai miei piedi e per poco non persi l’equilibrio. Un giorno o l’altro i suoi tentativi di omicidio sarebbero andati a segno.

«Amore, sono tornato!» Entrai, slacciai le scarpe e infilai le pantofole. Ero davvero  fortunato a essere di nuovo a casa. «Non puoi capire quello che è successo oggi».

Zanzibar saltò sulla sua sedia preferita e continuò a miagolare.

«Sì ho capito, un attimo». Presi l’ultima scatoletta di carne di coniglio e l’aprii. A quel suono metallico, Zanzibar balzò giù. Posai la lattina fuori al balcone e lei iniziò a divorarne il contenuto.

«Ero al supermercato e stavo per pagare la spesa, quando irrompono due tizi armati. Uno di loro mi ha afferrato e puntato un coltello alla gola». Afferrai lo straccio e pulii le mani da alcune gocce di olio colate dalla scatoletta. «Però, non è successo niente. Sto bene».

Aprii il frigorifero e venni preso dallo sconforto: latte scaduto, un vasetto di yogurt già aperto, foglie di lattuga ammosciate e rimasugli di una scatoletta di tonno.

«Solo che non sono riuscito a comprare niente. Dovremo arrangiarci per oggi».

Afferrai la lattuga, il tonno e aprii lo stipo della credenza: doveva essere rimasto un po’ di pan bauletto. Eccolo, giusto quattro fette. Un briciolo di fortuna in questa giornataccia.

Aprii la busta di plastica e l’odore chimico dei conservanti mi fece quasi passare l’appetito, ma almeno il pane era in condizioni mangiabili. Versai gli avanzi di tonno e olio su due fette, aggiunsi le foglie scure d’insalata e chiusi con altre due fette. Però, non sembrava così male come pranzo. Se solo avessi comprato quella maionese sarebbe stato perfetto.

«Amore, sto arrivando!» Andai verso il corridoio con in mano il piatto dei tramezzini. «Spero che tu abbia appetito».

Accesi la luce con la mano libera. Zanzibar mi sfrecciò accanto e balzò sul mobiletto in legno, rovesciando a terra una maschera e una sfera di vetro. Allungò una zampa verso il piatto con i tramezzini al tonno.

«Ehi, cattiva!» Allontanai il piatto da Zanzibar, che mi guardò con quei suoi occhietti dolcissimi. Mi pentii subito della mia imprecazione e le accarezzai il musetto. Come facevo a essere in collera con quella meraviglia? Staccai un pezzetto di tramezzino e glielo buttai a terra. Zanzibar miagolò di gratitudine e si lanciò sul boccone.

Posai il piatto sul legno laccato e iniziai a raccogliere i frammenti più grandi della palla di neve, che raffigurava la Basilica di San Marco, e la maschera veneziana di Carnevale: erano ricordi della luna di miele con Leda.

Sollevai la maschera di metallo, placcata in oro con una decorazione centrale a forma di cuore rosso in velluto. Passai i polpastrelli su alcune note musicali in rilievo su un lato. Era incredibile come, camminando così tante volte in quel corridoio, quei ricordi del matrimonio fossero diventati invisibili. Forse ero io che non volevo più vederli. D’altronde non avevo mai avuto bisogno di una maschera vera, ne indossavo una ogni volta che uscivo di casa per nascondermi agli occhi del mondo. Che poi non è ciò che fanno tutti?

Mi alzai con la maschera in mano e radunai con il piede i frammenti più piccoli della palla, ci avrei pensato dopo. Presi il piatto con i tramezzini. «Ecco amore, sto arrivando!»

Scesi le scale attento a non rovesciare il pranzo e, arrivato in fondo, abbassai la maniglia della porta di ferro.

Leda alzò di scatto la testa e mi guardò con due occhi spalancati, colmi di gioia. Alla vista del cibo, mugolò versi di piacere dietro il bavaglio: doveva essere perfino più affamata di Zanzibar.

«Tranquilla, amore, adesso mangiamo». Posai il piatto e la maschera sul tavolino sporco di polvere.

Leda continuò a mugolare e agitò i polsi assicurati alla gamba di ferro battuto del letto.

«Te l’ho già detto mille volte, non ti servono a niente quelle manine. Ti aiuto io a mangiare».

Abbassò gli occhi, docile come quando Zanzibar mi faceva le fusa in grembo. La luce proveniente dalla finestra sbarrata le illuminò il viso in modo diverso e solo allora notai i due nuovi lividi che le circondavano gli occhi come ombretto sbavato dalle lacrime. Dovevano essere i risultati di ieri sera. Un gonfiore iniziò a premere contro i pantaloni. Presi la maschera e mi avvicinai, il pranzo poteva aspettare.

Prima dovevo soddisfare un altro tipo di appetito.

«Ma quanto ti rendo bella, amore?» Le sue cosce nude, tutte belle scorticate e coperte solo in parte dalla sua sottoveste a brandelli, rinvigorirono l’erezione. «Altro che i trucchi che mettevi sempre, quelli da quattro soldi comprati dal cinese. L’ho sempre detto che non ti servivano a niente». Mi inginocchiai sul pavimento. «Guarda comunque che ho trovato di sopra». Indossai la maschera e il mondo si ridusse a due fessure.

Leda tornò di scatto a guardarmi e iniziò a mugolare di piacere, pregustando già il paradiso che le avrei fatto provare. Anche lei trovava quella maschera così eccitante.

«Te la ricordi?» Slacciai la fibbia della cintura di pelle. «Così festeggiamo anche noi il Carnevale».

Sbatté i piedi sul cemento e dimenò di nuovo le mani immobilizzate, stava implorando come non mai di sbrigarmi.

«Ecco amore, un attimo. Non essere così impaziente». Calai i pantaloni e tirai verso di me le gambe pallide e graffiate, facendo aderire la sua schiena al pavimento. Le presi il viso tra le mani e le strizzai le guance. «Lo sai che voglio sempre prendermi i miei tempi, quando facciamo l’amore».

Racconto di Lorenzo Angelaccio

Vincitore del Contest Stagionale Maschere 2023