Marta trovò incredibile che il palazzo in cui si era appena trasferita era praticamente di fronte quello di Max. Lui era simpatico, la faceva sentire a proprio agio, e per un istante fu contenta della loro vicinanza, ma subito dopo si ricordò che anche Zaira abitava proprio in quello stesso condominio, e quindi l’entusiasmo scomparve.
Si salutarono e ognuno entrò in casa propria. Marta abitava al quinto piano e le finestre del suo appartamento si affacciavano sulla via che divideva i due palazzi. “Con un po’ di fortuna dovresti riuscire a vedere camera di Zaira, almeno in teoria. Se lascia la finestra aperta dovrai solo attrezzarti di fotocamera.” ragionò Max ridendo. Lei pensò che, in effetti, non era una cattiva idea.
Marta prese l’ascensore, salì al piano ed entrò nell’appartamento. Era ancora spoglio, pieno di scatoloni e mobili da montare, le pareti vuote, bianche e lisce. Ogni stanza era triste e anonima, anche la sua. Non aveva neanche aperto una scatola, né una valigia. Tutto era chiuso, impacchettato, e lei non voleva sistemare. Non era sua quella casa, lo aveva sentito dal primo momento. Voleva solo andarsene da qualche altra parte, sicura che sarebbe stata meglio di dove fosse in quel momento. Lasciò lo zaino di fianco la porta e, avviandosi verso i due divani dall’altro lato della cucina-soggiorno, vide l’unico oggetto lasciato sul grande tavolo in legno: il distintivo di suo padre. Era solito lasciarlo sul tavolo da pranzo anche prima di trasferirsi, per poi passarlo a prendere durante la pausa pranzo con una tale metodicità da sembrare quasi di farlo apposta.
Sprofondò sul divano, sdraiata, e guardò il telefono. Le uniche notifiche provenivano dal nuovo gruppo di classe in cui era stata inserita, ma nessuna dai vecchi numeri. I suoi “amici” non le avevano scritto dall’altro ieri, quando era partita.
Entrò sul nuovo gruppo di classe e ringraziò di tutti i messaggi di benvenuto. Rispose anche ad alcune domande, ma si bloccò dopo poco. Il pollice le schizzò fino al nome del gruppo e lo schermo le presentò le varie informazioni, ma non le interessavano. Guardò la lista di immagini tonde sulla sinistra senza interesse dei numeri che avevano di fianco, quando la vide: l’immagine di profilo di Zaira aveva uno strano filtro opaco; la foto era scura (cosa che risaltava la carnagione chiara) e la ritraeva sul letto sopra una coperta a scacchi con una maglietta a maniche corte, i tatuaggi in bella vista. Aveva un altro taglio di capelli, il viso a tre quarti e gli occhi puntati contro l’obiettivo, una mano di fianco la bocca, il viso candido macchiato solo dai piercing terribilmente neri, un anello al dito, gli occhi scuri che la fissavano come se la conoscesse meglio di sé stessa. Vide solo allora anche il drago Shenron di Dragon-ball occupargli tutto il braccio destro, presente per intero in foto, mentre quello sinistro teneva il telefono. Senza dubbio sapeva come farsi i selfie. Salvò il contatto come Zaira, non ricordandosi quale fosse il cognome, e lanciò il telefono sul divano. Sospirò. Si chiese se avesse dovuto anche ricordarsi quale fosse il loro rapporto in quel nome di contatto, come “Zaira non parlarci” o qualcosa del genere.
Qualcuno aprì la porta e lei scattò seduta, certa di non aver lasciato le chiavi attaccate alla serratura. Sbuffò qualcosa di simile a un “ciao” quando vide suo padre entrare. Vestiva con un completo elegante e aveva il fiato corto.
— Ciao. — Disse lui di rimando. — Ho lasciato…
— Sul tavolo. — interruppe lei indicando quello non molto distante, di fronte l’angolo cottura.
Lui prese il distintivo di corsa e se lo mise in tasca, poi si voltò di nuovo verso la figlia. — Com’è andata oggi a scuola? — chiese come chi non è esperto nel fare domande. In effetti riusciva a vedere Marta per meno di un paio d’ore a settimana, e non ricordava neanche l’ultima volta in cui avessero cenato insieme.
— Bene, sembrano simpatici. — Mentì in parte lei per concludere alla svelta quella conversazione.
— Ti piace la nuova casa?
— Sì.
— Se sali sul tetto si vede San Pietro. — sorrise lui, alla ricerca di argomenti per allungare quella chiacchierata. Gliel’aveva detto anche il giorno prima, quando avevano scaricato tutti gli scatoloni. — Hai bisogno di qualcosa?
— No, grazie.
— Ok… vedo se riesco a tornare per cena. Ciao.
— Ciao. — E suo padre uscì, chiuse la porta e diede le mandate di chiave. Lei cadde di nuovo sul divano. — La vista non mi basta. — bofonchiò.

Né suo padre né sua madre tornarono a casa quella sera, e lei come “in bocca al lupo” per l’inizio di quel nuovo e pessimo anno ordinò sushi a domicilio. “La cosa vantaggiosa di avere due genitori assenti per motivi di lavoro è che ti lasciano la carta” diceva spesso alle sue vecchie amicizie.
Il giorno successivo si era svegliata di buon’ora e si era fatta una doccia lunga e rilassante. A giudicare dal primo giorno, le sarebbe servita. Si incamminò verso la scuola non distante da casa sua con lo zaino sulle spalle e una strana positività. Sarebbe stato migliore quel giorno, o quanto meno lo sperava.
Salì di nuovo le scale e raggiunse la sua classe, ma questa volta, al contrario del giorno precedente, si fermò. Si poggiò alla robusta e ruvida parete con una spalla, chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. “Oggi andrà meglio” disse a se stessa con così tanta intensità che per un istante si chiese se lo avesse detto ad alta voce. Se lo ripeteva anche per non perdere l’emozione di quasi-allegria con cui aveva lasciato casa. Riaprì gli occhi ed entrò in classe, salutò tutti i presenti e si diresse al suo posto al primo banco. L’occhio le cadde su Zaira, Michelle e Max, ma fece finta di non averli visti. Non appena si mise seduta, Zaira si schiarì la voce, poi si voltò verso lei e la guardò come se fosse a capo della conversazione, della classe e anche della scuola. Marta la guardò dall’alto verso il basso e non poté che trovare divertente quello sguardo di superiorità proveniente da venti centimetri più giù.
— Mi rendo conto che ieri… potrei essere sembrata scortese — sibilò a denti stretti. Michelle sorrise con fare incoraggiante e pure Max fece lo stesso, anche se lui sembrava più non riuscire a trattenere le risate. — e mi dispiace… se sei solo un’irascibile…
— Zaira. — interruppe Michelle.
— Se hai avuto un’idea sbagliata di me. Ma io vorrei… che te ne andassi a fare in…
— Zaira. — interruppe questa volta Max, riacquistando il suo sorriso divertito abituale.
— Io vorrei ricominciare da capo come se non ci fossimo mai viste. — Bofonchiò.
— Ti consiglio di accettare, non l’ho mai sentita dire cose così gentili. — Avvisò Max. — Dai, sono sicuro che andrete d’accordo.
Marta stava per accettare quella specie di accordo, ma si fermò all’improvviso quando lo sguardo le cadde su Michelle. — E tu? Che ne pensi?
— Cosa c’entra lei? — domandò diffidente Zaira.
— Non l’ho sentita dire una parola in due giorni, e l’unico che mi è sembrato normale qua dentro è Max.
— Ha appena parlato mi sembra, e tu…
— Buongiorno. — Salutò il professore di tedesco entrando in classe e interrompendo Zaira. Era un uomo smilzo e alto con pochissimi capelli marrone chiaro sulla testa. Aveva un grosso borsone rosso, da cui tirò fuori un computer, un quaderno ad anelli e il libro di testo.
Max sospirò: il professore con un’unica parola aveva salvato la conversazione. Lui e Michelle presero il materiale per la lezione mentre il docente faceva l’appello. Marta e Zaira si scambiarono un rapido sguardo prima di fare altrettanto; quello della prima diceva “non finisce qui”, l’altra lo raccolse e rispose con il suo che diceva “abbiamo appena cominciato”.

Un’ora dopo suonò la campanella e il professore dettò in fretta e furia i compiti per casa. Zaira mise i libri nello zaino e si alzò circondata dal chiasso dei compagni ansiosi di lasciare l’aula durante l’ora di religione.
Marta aveva picchiettato con il piede per tutta l’ora e adesso le faceva male la gamba. La guardava di sfuggita quasi ogni secondo, come per assicurarsi che non scappasse dalla scuola. — Ferma. — disse scattando in piedi anche lei.
— Spostati. — Ordinò Zaira passandole di fianco. Marta quasi cadde sul banco travolta dalla ragazza, poi si spostò il più possibile di lato, facendola passare ed evitando ulteriori urti. Zaira uscì svelta con passo furente dalla classe ma Max riuscì comunque a seguirla.
— Non preoccuparti, — rassicurò Michelle spostandosi di fianco a Marta e mettendosi in spalla lo zainetto. — Max è bravo con le parole. Mai quanto Zaira ma è sufficiente per calmarla. Io comunque sto bene e non sono… assoggettata o torturata in segreto.
— Be’, sembra che invece sia così.
— Sembra. — Sottolineò Michelle facendosi comparire un ghigno sul volto. — Non devi essere una vittima, un cattivo o un eroe, devi solo sembrarlo. Ed essere quella triste e mogia che sta sempre di fianco a quella stronza mi torna comodo. — Spiegò poi.
— In che modo? — domandò Marta.
—Gli altri tendono a evitarti, e il novanta percento di questa scuola è composto da deficienti che ragionano con il pene, quindi evito da sola molte conversazioni che non voglio fare. — Sorrise soddisfatta e la superò. — Adesso abbiamo la Bruno come supplenza, quindi vedi di svuotarti la testa da queste paranoie che ti fai su Zaira oppure ti esploderà prima della ricreazione. Sempre ammesso che tu non faccia religione.
Marta si mise lo zaino sulle spalle e la raggiunse. — No, ho fatto domanda per lo studio assistito. — E uscirono dalla classe.
Zaira la evitò per il resto della giornata, e quando suonò l’ultima ora fu sollevata pensando che il giorno successivo (sabato) sarebbe rimasta nella quiete di casa sua. Si sarebbe guardata qualche puntata di uno strano anime che aveva scoperto su un blog; parlava di pallavolo. Magari avrebbe addirittura studiato o, più probabile, si sarebbe fatta un giro del quartiere alla ricerca della fumetteria più vicina.
— Ehi, — salutò Max facendole alzare lo sguardo dai libri che stava mettendo nello zaino. Al fianco del ragazzo sorridente c’era Michelle, e anche lei sembrava contenta. — stasera noi due andiamo a prenderci una birra in un locale vicino casa, ti va di aggiungerti?
— Tranquilla, non ci sarà Zaira. — Rassicurò Michelle prevedendo la sua domanda.
— Allora ok. — annuì Marta. — Così mi spiegate meglio come vanno le cose qui.
Un ragazzo biondo e alto urtò Max con tanta violenza da non far credere di averlo fatto per errore. Era muscoloso, ben piazzato e non sembrava avere una faccia molto sveglia. — Oh, scusa. Raga! Fate attenzione oppure lo metto a terra un’altra volta! — Esclamò a pieni polmoni per farsi sentire dagli altri otto. Insieme, come un branco di tori, uscirono dalla classe per unirsi alla calca sulle scale, continuando a gridare e ridere come per il semplice gusto di dare fastidio.
— Un simpaticone. — Commentò Marta. Ci aveva fatto caso anche durante la giornata: quel tipo aveva passato tutto il tempo a chiacchierare in ultimo banco piuttosto che ad ascoltare i professori, con il telefono in mano e un auricolare nell’orecchio. — Chi è?
— Valerio Battaglia, un coglione in tutto e per tutto che sta a me come Zaira a te, solo che Zaira ha anche lati positivi. — Spiegò Max. — Abbiamo fatto a pugni un paio di volte e lui ha sempre vinto.
— Fa come gli pare, — spiegò poi Michelle. — Ed è il tipo che prima ti picchia e poi ti saluta. L’ultima volta se l’è presa con un gruppetto di primini. Max lo ha fermato.
— Ho provato a fermarlo.
— Tecnicamente ci sei riuscito, anche se sei tornato a casa con un occhio nero.
— E una spalla lussata… — aggiunse mogio. — E va meglio di me in chimica. Anzi, credo sia l’unica materia in cui abbia la sufficienza.
— In generale direi che stai migliorando. — Decretò Michelle. Max allungò uno dei sorrisi che formavano il suo repertorio, diverso da qualsiasi altro Marta avesse visto fino ad allora: era di circostanza, spento, come se stesse sul viso di lui solo per far sorridere loro due.
— Ci vediamo stasera, io devo andare. — Salutò Max. Si mise le cuffiette e cominciò a camminare con passo molto svelto per un tipo di quell’altezza.
— Facciamo la strada insieme? — Propose Marta qualche attimo prima che il ragazzo le distanziasse a sufficienza.
— Lui non sta andando a casa: cinque giorni a settimana va ad allenarsi con il suo maestro. Fa una specie di arte marziale, non ci ho mai capito niente, — spiegò Michelle facendo spallucce. — anche perché non dice mai nulla a riguardo, ma è anche il motivo per cui resiste un po’ contro Valerio: lui fa tornei di pugilato.
Il viaggio di ritorno a casa delle due fu riempito di domande nei confronti di Valerio (che si venne a scoprire essere bravo in chimica come in pugilato), Max e, soprattutto, Zaira. Marta domandava come se in qualsiasi momento le venisse rivelato che in realtà si trattava di una specie di scherzo o un esperimento sociale. Fatto stava che continuava a pensare a lei e non in maniera positiva. Le sembrava il personaggio di una serie TV di cui sapeva poco ma quanto bastava per non andarci d’accordo. Eppure era certa di non essere la tipa da lasciarsi ossessionare solo per un comportamento fuori dalla media.
Si separarono qualche metro prima della casa di Marta, che attese l’entrata di Michelle nel palazzo prima di raggiungere il proprio. La loro stessa vicinanza non le sembrava una semplice coincidenza, ma cercò di convincersi che fosse tale.

Una volta sentito il campanello andò ad aprire la porta con passo svelto e sorrise a Max non appena lo vide sul pianerottolo. I capelli neri erano ancora più disordinati del solito, simili alla criniera di un leone, e lui vestiva con una camicia rossa con cappuccio e scacchi neri sopra una maglietta blu. — Buonasera. — Salutò lui senza smettere di pettinarsi con una piccola spazzola pieghevole.
— Ciao. — Contraccambiò Marta. Prese il giacchetto dall’appendiabiti e ne tirò fuori le chiavi, poi uscì e chiuse la porta. — Come va?
— Tutto bene, grazie. — Rispose lui. — Tu?
— Me la cavo, ho passato il pomeriggio a guardare anime.
— La nostra amicizia non potrebbe andare meglio di così. — Affermò. Pigiò il pulsante dell’ascensore e le porte si aprirono subito.
— Tu cosa hai fatto? — Chiese lei impedendo all’interessamento di Max di aumentare. Avrebbe potuto parlare di anime per tutta la serata a giudicare dallo sguardo che si stava spegnendo nei suoi occhi.
— Mi sono allenato. Magari non sembra, ma cerco di tenermi in forma. — Spiegò mettendo la spazzola in una tasca posteriore dei pantaloni. — La palestra dove andavo mi ha dato un nome, un maestro di arti marziali che non insegna più da alcuni anni. Mi alleno a casa sua, costa meno.
— Capito.
— Tu? Niente stalking sulla nostra amichetta oggi pomeriggio? — domandò lui.
— Ma cosa ti credi? Che non abbia nulla di meglio da fare che passare il tempo a controllarla?
— Credo che tu abbia messo per sbaglio un mi piace a una sua foto su Instagram di tre anni fa. — disse lui quando le porte dell’ascensore si aprirono. — Si vede quando qualcuno che segui mette mi piace a una foto, fortuna ha voluto che abbia un profilo pubblico. — E uscì.
— E tu come fai a saperlo? — domandò lei, adesso incuriosita. — Dovresti aver visto quella foto, cosa c’è? Sei innamorato della piccola stronzetta?
— Primo, non sono il tipo da provarci. Secondo, lei non è il mio tipo. Terzo, il modo in cui impiego il mio tempo su Instagram non ti compete. — Sentenziò Max aprendo il portone per poi scendere il gradino lasciandosi cadere sul marciapiede quasi deserto, occupato solo dai ragazzi in transizione verso il luogo dove avrebbero passato la serata.
— Scusa… — borbottò Marta raggiungendolo. L’ultima cosa che voleva fare era toccare un nervo scoperto, per di più dell’unico ragazzo della classe che sembrava andargli a genio.
— No, è colpa mia. Non mi dovrei arrabbiare per così poco. — Interruppe Max riprendendo il sorriso. Una volta uscito dall’ascensore le aveva dato solo le spalle, come se non volesse mostrarsi senza le labbra tirate all’insù. — Solo noia, nulla di più. Scrollando il profilo mi sono imbattuto nella foto incriminante e questo è quanto.
— Se fosse stata solo noia non ti saresti scaldato tanto. — Osservò lei.
— Touché. — ammise il ragazzo senza però perdere il sorriso. — Be’, come già detto, sono affari miei.
— Mai detto il contrario. — Disse Marta. — Quanto manca? — chiese senza un vero interesse.
— Siamo quasi arrivati, non vado a cercare posti troppo lontani. Adesso giriamo a sinistra, attraversiamo e siamo quasi arrivati. Michelle dovrebbe essere già arrivata. — Spiegò voltando l’angolo in una stretta e breve via che si affacciava su una strada a due corsie verso la quale stavano camminando.
— Qua a Roma però è difficile camminare. — Commentò lei proprio dopo aver ripreso l’equilibrio; per poco non era caduta a terra. Le crepe decoravano il marciapiede scuro proseguendo fino alla strada, dissestando tutta l’area pedonale. Max, nato e cresciuto a Roma, non aveva però difficoltà a camminare sul terreno accidentato e anzi i piedi si muovevano con una certa maestria.
— Come è difficile guidare e buttare l’immondizia. Questa è una città caduta in miseria per colpa di chi la gestisce e dalla maggior parte dei suoi abitanti. Una volta si chiamava l’Urbe. — Aggiunse come se fosse stato presente.
— Non sembra un bel posto se ne parli così.
— Non lo è. — Rispose lui con leggerezza, poi guardò il cielo. Si era fermato sul limite del marciapiede, e in attesa del verde per attraversare l’incrocio. Gli occhi fissavano interessati quelle poche stelle che riuscivano a farsi vedere nonostante l’inquinamento luminoso nel cielo che, ormai, stava per diventare del tutto nero. — Ma vuoi mettere abitare in un museo a cielo aperto?
— Be’, in effetti non è per niente male come idea. — Disse Marta incantata da quei due puntini di luce che si stavano facendo vedere nonostante tutto. Non le aveva mai viste in città, e doveva sempre andare in campagna per vederle al meglio, mentre adesso le vedeva, sebbene debolissime, in un cielo di piena città e la entusiasmavano, anche se pensava che la maggior parte di quell’emozione era dovuta alle parole di Max. — Credo tu sia il miglior venditore che abbia mai incontrato.
— Sono solo bravo con le parole, e quando voglio so essere poetico. — Si giustificò Max come se avesse ricevuto la più grave delle accuse. Il verde scattò e attraversarono, poi svoltarono a destra e proseguirono. Passarono di fianco una pizzeria e Marta colse l’occasione per prendere un bel respiro profondo, approfittando dell’odore di pane e cibo al forno che permeava l’aria di fianco l’entrata. — Non hai cenato? — Le domandò
— No, pensavo di vedere come va a finire la serata, poi valuterò. Com’è questo posto?
— Economico e con gestori molto gentili, quindi non ti aspettare la migliore birra della città. Hanno anche un flipper e uno di quei giochi che tiri un pugno e ti dicono quanto sei forte. È una bella atmosfera, la maggior parte delle volte è tranquillo. Poi in caso andiamo a cena, ma non lì, c’è un posto un po’ più in là che fa patatine fritte. Costa meno, buono ma è una catena, quindi non ti puoi fermare a parlare.
— La sai lunga. — Commentò Marta.
— Abito qui da quando sono nato e sono sempre stato uno che si annoia in fretta. Quindi mi piace esplorare. Siamo arrivati. — Max indicò un’insegna di legno scuro le cui parole erano ormai illeggibili. A Marta non interessava affatto il nome del luogo, quindi preferì sbirciare all’interno dalle vetrate per anticiparsi l’aspetto del locale. Si fermò, confusa per poi arrabbiarsi sempre di più quando si rese conto che Zaira era seduta allo stesso tavolo di Michelle, non molto distante dall’ingresso.
— L’hai invitata?!
— In mia difesa, vorrei dire che non è stata una mia idea. — Puntualizzò Max mettendo le mani in avanti, sperando di riuscire a calmare Marta. — Almeno provaci.
— A fare cosa? Mica ci voglio fare amicizia! — Sbottò lei tenendo il volume della voce sotto controllo. — Sappiamo entrambi…
— Tu non la conosci neanche. Non bastano otto ore per capire se una persona è buona o no.
— Già, hai ragione, ne bastano di meno. — Rispose Marta a tono.
— Senti, te lo chiediamo entrambi: prova per questa sera e se si confermerà come la stronza più stronza delle stronze allora ti do ragione e non ti chiederò più nulla.
Marta sospirò, guardandosi intorno come se riuscisse a vedere motivi per rifiutare scritti sull’aria. Di certo ne aveva molti per la testa, così tanti che non sapeva neanche da dove cominciare. Max sembrava quasi preoccupato da un suo “no”, e doveva premergli parecchio che loro due diventassero amiche. Ma perché? — Spiegami perché così tanto accanimento e facciamo questo tentativo fallimentare.
Max si guardò intorno, poi si avvicinò. Per un istante Marta aveva seguito il suo sguardo verso l’interno del locale, dove Michelle parlava con Zaira fissandola negli occhi con espressione seria. Sì, un’altra ragazza rispetto al primo giorno. — I genitori di Zaira l’hanno abbandonata quando aveva sette anni, — spiegò lui a voce bassa. Lei sgranò gli occhi, incredula, sicura che si trattasse di uno scherzo. Max aveva le labbra allungate di chi fa buon viso a cattivo gioco, ma gli occhi erano tristi e cupi, come se fossero stati presi da un’altra faccia. — Io e Michelle siamo gli unici con cui parla e provo a presentarle tutti quelli che conosco ma non durano tanto. Tu… come dire…
— Le tengo testa? — Tentò lei. Max annuì.
— A cosa servono gli amici se non ti fanno vivere meglio? E credo che tu sia una di quelle persone che non si devono lasciar scappare.
Marta sbuffò una risata. Forse la serietà con cui lui le parlava rendeva tutta quella situazione ancora più strana di quanto già non fosse. Scosse la testa e prese un profondo respiro. — Resto per una birra e vediamo come va a finire.
— Grazie mille. — Disse Max con tono grato all’eccesso. — Una media?
— Chiara. — Aggiunse lei.
Lui entrò e subito dopo Marta lo raggiunse. Prese un profondo respiro e si avvicinò al tavolo.