La ragazza percorse le scale lentamente in mezzo all’ingorgo creato da tutti gli altri studenti, ansiosi di entrare nelle loro classi. Un tacito pensiero era condiviso da ognuno di loro: “prima entriamo e prima usciamo”, sebbene il più superficiale dei pensieri logici sarebbe stato sufficiente per smentire quelle parole. Purtroppo per loro, il tempo non sarebbe passato più velocemente correndo per le scale.
Lei cercò attentamente il numero 70 tra quelli scritti sopra le porte nel corridoio, cercando di schivare al meglio che riusciva tutti coloro che viaggiavano in senso contrario rispetto a lei. Lo zaino rosa evidenziatore era quasi vuoto, con all’interno solo un astuccio e un quaderno ad anelli con una ventina di fogli a righe. Nessun libro, non li aveva ancora neanche ordinati.
Il passo era svelto, il respiro calmo per mascherare il battito del cuore sempre più frenetico. Arrivò alla porta e, senza fermarsi, entrò dentro. Non voleva pensarci, non voleva creare problemi dove i problemi non sarebbero potuti essere. Entrò nella classe della sua nuova scuola, ed esordì con un “buongiorno” egregiamente pronunciato, né sussurrato né urlato. Aveva lo sguardo alto, quasi fiero, prestato a un’analisi sbrigativa e disinteressata ai dettagli dell’ambiente: una professoressa era già seduta alla cattedra, intenta a litigare con il registro elettronico; rispose anche lei con un saluto, senza però distogliere lo sguardo seccato dallo schermo. C’erano cinque ragazzi tra i banchi, principalmente in piedi, e appena la videro entrare anche loro fecero nei suoi confronti la stessa analisi che lei aveva fatto alla stanza. Vide due ragazze sedute in prima fila, una di fianco a l’altra, e vide anche i due posti liberi alla loro destra. Si avvicinò con decisione e senza fermarsi verso quel punto: primo banco, secondo posto da destra. Era lontana dalla cattedra ma comunque in prima fila, un ottimo modo per fare come sua madre si era raccomandata ormai ogni giorno nell’ultima settimana: “mostrati interessata e volenterosa di studiare”. La scuola non sembrava essere per niente di speciale, sia fisicamente che come organizzazione. Anche prima di trasferirsi frequentava il liceo, quindi non sembrava prospettarsi un anno diverso da quello che avrebbe affrontato a Milano, e i suoi giorni sarebbero stati farciti da quell’unica parola che nessuno studente della sua età voleva sentire: maturità.
-Tizia,- interruppe una delle ragazze al primo banco, la seconda da sinistra. Lei era rimasta con lo zaino in mano, a pochi centimetri dal banco, pronta a lasciarlo sopra di esso. -che stai facendo?-
-Mi sto… sedendo…- rispose confusa. Lasciò la cartella sul tavolo, poi le sorrise.
La ragazza sembrava essere sul punto di esplodere una volta sentite quelle parole. La fissava con le labbra serrate, come se si stesse sforzando con tutta se stessa di tenere la bocca chiusa. La professoressa non sembrava essersi accorta di nulla, come i restanti componenti della classe che, ormai, avevano perso interesse verso la nuova arrivata.
-Non qui.- continuò ancora lei, scuotendo la testa come stesse dicendo la più ovvia delle cose.
-Io invece volevo proprio sedermi qua.- rispose. -E poi mi chiamo Marta, ricordatelo la prossima volta che ti viene in mente di chiamarmi “tizia”.-
Marta poté vedere la pelle del viso dell’altra ragazza scaldarsi e tendere al rosa scuro. Non che le facesse piacere dare fastidio alle persone, ma chiunque fosse quella sconosciuta non gli andava per niente a genio, sebbene la “conoscesse” da appena qualche secondo.
Prima di parlare, lei prese un respiro profondo e cercò con tutta sé stessa di dimenticare le parole dette da Marta. La sua compagna di banco la guardava con gli occhi spalancati, con la paura che li permeava. -E a me non interessa, vorrei solo restare a questo banco da sola.- ringhiò lei a denti stretti sforzandosi di apparire cordiale.
-Tu sei la ragazza nuova?- domandò la professoressa interrompendo le due. Marta si voltò verso la cattedra e annuì. -Mettiti al primo banco, voglio tenerti d’occhio.- ordinò poi.
Stabilì che neanche quella professoressa le piaceva, ma le aveva regalato un sorriso: adesso quella ragazza, chiunque lei fosse, non avrebbe avuto più voce in capitolo sull’argomento.
Allora non poteva avere idea di quanto quell’affermazione potesse essere sbagliata.
Le prime due ore passarono con la professoressa di storia: aveva fatto un paio di domande a Marta, facendole fare un’imbarazzata, e per sua fortuna breve, presentazione. Scoprì inoltre che la ragazza antipatica si chiamava Zaira, mentre quella seduta di fianco a lei all’estrema sinistra (che non le aveva ancora detto una parola da quando era entrata) era Michelle. La classe si era ovviamente riempita di altri studenti, e la maggior parte di loro aveva colto l’occasione per avvicinarsi al primo banco, salutarla, e farle le solite domande di rito: “da dove vieni?”, “perché ti sei trasferita?”, “in che zona stai?”. Marta rispondeva a quelle domande senza pensarci troppo sopra, con la mente impegnata su Zaira, che aveva passato tutta la ricreazione a sussurrare a Michelle in una lunga conversazione e, a giudicare dall’espressione delle due, era tremendamente seria. Zaira era una ragazza bassina, con il viso lungo e morbido ma spigoloso e con corti capelli neri praticamente rasati sulla nuca. A un primo sguardo sarebbe potuta sembrare un ragazzo, era il resto del corpo a smentire tale ipotesi. Vestiva con un paio di jeans aderenti e una lunga maglietta nera a maniche corte, macchiata da fori all’altezza del fianco destro. Le braccia, le mani e anche alcune dita erano ricoperte dai tatuaggi più disparati, tra cui aveva riconosciuto un Pokémon e la Keyblade di Sora, del gioco di Kingdom Hearts. Michelle invece aveva i capelli biondi, lunghi e lisci, e non sarebbe potuta essere scambiata per un ragazzo neanche da un cieco con il viso levigato e il corpo che si ritrovava. Era poco più alta di Zaira e indossava una felpa rosa con cappuccio e un paio di pantaloni marrone scuro.
Marta non si era alzata dal banco per tutta la ricreazione, ma lanciava occhiate alle due di tanto in tanto. Loro non sembrarono neanche essersi accorte delle sue attenzioni.
Nelle successive due ore di lezione la classe venne riempita dal brusio degli studenti e dalla voce dei due professori che, come un disco rotto, continuavano a ripetere che l’esame di stato non sarebbe stato facile e che “la pacchia era finita”. Zaira e Michelle non emisero un solo fiato fino all’ultimo suono di campanella, poi, senza fare il minimo rumore, presero i loro zaini vuoti e si alzarono, uscendo dalla classe e precedendo tutti gli altri. Un suo compagno, prima di uscire proprio mentre lei si stava alzando, le chiese il numero di telefono per aggiungerla al gruppo di classe. Marta, senza pensarci troppo, accettò, dettandoglielo rapidamente. Lui salutò e si unì a un gruppo di compagni fermi sulla porta. Lei fu una degli ultimi a uscire dalla classe.
-Ehilà.- salutò gioviale un ragazzo mettendosi di fianco a lei, seguendo il suo passo lento. Aveva lunghi e disordinati capelli neri che si fermavano poco sopra le spalle e un paio di occhi marroni terribilmente scuri. Era paffuto e non molto più alto di Marta ma con due spalle ben piazzate che lo facevano sembrar torreggiare sulla ragazza, come se la stesse guardando dall’alto verso il basso. -Io sono Max, molto piacere.- e le porse una mano. -Ho pensato di darti un po’ di tregua, eri già abbastanza sotto i riflettori con metà classe addosso.-
-Sì, ma alla fine succede sempre a tutti quelli nuovi.- disse lei stringendosi tra le spalle e afferrandogli la mano. Era bollente. Allungò un sorriso.
-Hai avuto il coraggio di parlare con Zaira, non è roba da tutti.- commentò lui tornando a guardare in avanti, liberandosi dalla presa alle dita.
Lei alzò le sopracciglia, adesso il corridoio era deserto e loro camminavano a passo rilassato, quasi pigro. -Quindi è una stronza patentata con tutti quanti?-
-Be’… sì.- confermò Max dopo aver cercato qualche possibilità per dire di no, senza successo. -Ma a me sta simpatica, facciamo cosplay insieme.-
Anche Marta si dilettava con i cosplay da qualche anno, e aveva anche un piccolo seguito sulla sua pagina Instagram, ma pensò che non fosse ancora il momento giusto per dirlo quindi preferì cambiare argomento, visto anche che non le piaceva per niente avere qualcosa in comune con quella Zaira. -Be’, non so come tratti te ma…-
-Con gli altri sembra una gigantesca stronza? Sì, è esattamente così. Ma basta dargli un po’ di tempo, poi migliora.-
-Quanto tempo?-
-Con me sono bastati un paio di anni costretti nella stessa classe. Temo di essere “fottutamente bravo con quelle poesie del cazzo”, se volessimo citarla.- Entrambi risero. -Ho cominciato ad aiutarla con i compiti e da cosa nasce cosa… siamo diventati amici. Solo amici, purtroppo, anche se non credo sia il mio tipo.-
I due erano appena usciti dal cortile della scuola (triste, claustrofobico e pieno di cemento quanto povero di alberi e di verde) e si diressero entrambi nella stessa direzione. -Non riesco a togliermela dalla testa…- borbottò lei.
-Magari è un segno.- disse lui. -Non so di cosa, ma forse significa soltanto che devi conoscerla meglio. Dopo le parlo; abita al piano sopra al mio, sai?-
-Pensa un po’.- disse senza interesse. Continuava a pensare a quella sensazione che aveva mentre le parlava, allo sguardo che si era sentita puntata contro, a tutte quelle parole che Zaira le voleva dire e che non le aveva detto. Era come se fosse riuscita a sentirle: parole piatte, ma gigantesche.
Quella aveva qualcosa che non andava.
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