Introduzione
La rappresentazione del trauma queer nella narrativa contemporanea è un terreno complesso, in cui si intrecciano dimensioni estetiche, etiche e politiche. Come osserva Eve Kosofsky Sedgwick (1990), la produzione culturale legata all’esperienza queer non può essere disgiunta dalle condizioni storiche e sociali che hanno plasmato l’immaginario collettivo: invisibilità forzata, stigmatizzazione, persecuzione, discriminazione legale. Di conseguenza, il trauma si è imposto come elemento quasi strutturale nella narrazione queer, al punto da rischiare — oggi — di diventare un trope abusato, utilizzato più per il suo potenziale drammatico che per la sua verità esperienziale. Questo è molto più evidente nel romance MM che nella narrativa queer, ma di questo parleremo più avanti.
In questo contesto, la sfida principale per chi scrive storie queer è rappresentare il dolore e il trauma senza ridurli a mero spettacolo (queste cose lasciamole a chi scrive – male – il grimdark). Tale operazione implica una consapevolezza critica del proprio ruolo di narratore e della responsabilità nei confronti di pubblici diversi, queer e non queer, nonché un rifiuto del “voyeurismo del trauma” (Ahmed, 2017).
Trauma queer e genealogie narrative
Il trauma, come concetto, non è mai puramente individuale: è un fenomeno collettivo, inscritto in strutture di potere e rapporti sociali. Judith Butler (2004) sottolinea come i corpi “leggibili” e “vivibili” siano determinati da norme che producono vulnerabilità differenziali: essere queer significa spesso abitare una condizione di precarietà ontologica, dove il riconoscimento sociale è costantemente negoziato o negato.
In letteratura, questa condizione si è tradotta in un corpus di opere caratterizzate da:
- narrative di perdita (Baldwin, Giovanni’s Room),
- narrative di vergogna (Hollinghurst, The Line of Beauty),
- narrative di sopravvivenza (Bechdel, Fun Home).
Come osserva Jack Halberstam (2011), la cultura queer ha sviluppato forme narrative “improprie” rispetto alle strutture eteronormative: tempi sospesi, finali aperti, estetiche della frammentarietà. In questi spazi, il trauma non è un incidente di percorso, ma una lente attraverso cui filtrare il mondo.
Spettacolarizzazione: il rischio del “trauma porn”
Il concetto di trauma porn, diffusosi negli studi culturali e accademici (soprattutto all’estero perché qui non abbiamo gioie), descrive la tendenza a rappresentare la sofferenza in modo sensazionalistico, al fine di provocare reazioni emotive intense nel pubblico — spesso senza restituire complessità o contesto (Kaplan, 2005). Nel caso delle storie queer, questo fenomeno si manifesta quando:
- la violenza è descritta nei minimi dettagli grafici,
- l’evento traumatico non ha conseguenze durature nella psicologia o nelle relazioni del personaggio,
- il trauma serve da pretesto narrativo per motivare trame altrimenti convenzionali.
Sara Ahmed (2017) avverte che questo tipo di narrazione rischia di trasformare il dolore queer in “oggetto da consumare”, in una forma di feticizzazione del danno che priva l’esperienza della sua agentività politica e individuale.
Questo problema non è sofferto solo in ambito queer, ma anche femminile, che vedremo più tardi.
Etica della rappresentazione: il ruolo dell’autore
Raccontare il trauma queer comporta una responsabilità etica. Butler (2009) parla di “accountability narrativa”: ogni atto di racconto è anche un atto di posizionamento politico. Questo implica, per l’autore, interrogarsi su:
- Prospettiva: da quale punto di vista viene raccontato il trauma? È centrato sull’esperienza queer o filtrato da un osservatore esterno?
- Funzione narrativa: il trauma è un momento isolato o una linea tematica che informa lo sviluppo del personaggio?
- Temporalità: viene mostrato il “dopo” del trauma, la fase di elaborazione e ricostruzione? (nota bene, questo è un fattore molto importante soprattutto quando si scrive romance MM poiché spesso viene saltato a pié pari o fatto nella maniera più rapida o irrealistica possibile)
Sedgwick (1990) insiste sull’importanza della “texture emotiva” nella scrittura queer: la rappresentazione deve restituire il modo in cui l’esperienza si intreccia con desiderio, vergogna, paura e resilienza, evitando l’appiattimento su un solo registro emotivo.
Strategie narrative per una rappresentazione non spettacolarizzante
Focalizzazione interna
La scelta di una focalizzazione interna consente di filtrare l’evento traumatico attraverso la percezione soggettiva del personaggio, limitando il rischio di scivolare nella pornografia della violenza. Come sottolinea Mieke Bal (1997), il punto di vista è il principale strumento per regolare l’accesso del lettore alle informazioni sensoriali ed emotive.
Temporalità spezzata
Il trauma può essere narrato in modo frammentario, con ellissi e ritorni, riflettendo la natura discontinua della memoria traumatica (Caruth, 1996). Questo approccio privilegia la verità psicologica rispetto alla cronologia lineare.
Agency e resistenza
È essenziale che i personaggi queer conservino agency anche nei momenti di vulnerabilità. Ahmed (2017) ricorda che la resilienza non è mera sopravvivenza, ma capacità di riarticolare il proprio rapporto col mondo dopo l’evento traumatico. Proprio come succede nella vita reale.
Integrazione del trauma nel tessuto narrativo
Il dolore non dovrebbe essere un’appendice, ma una componente organica della trama e dell’arco di trasformazione del personaggio. Questo evita che il trauma appaia come artificio manipolativo.
Worldbuilding e trauma strutturale
Nella narrativa speculativa, il trauma queer può essere incorporato in forme di oppressione sistemica inventate, ma analoghe a quelle storiche. Halberstam (2011) invita a usare il fantastico come laboratorio per immaginare forme alternative di comunità e resistenza. Tuttavia, la costruzione del mondo deve mostrare anche spazi di sicurezza, non solo luoghi di violenza, per evitare una visione monoliticamente distopica.
Però quello del fantastico genera altri problemi, nello specifico sui personaggi femminili, che ora analizziamo:
La spettacolarizzazione del trauma femminile nella narrativa fantasy: un modello diffuso anche in Italia
In molte opere fantasy (e in particolare nel sottogenere grimdark), lo stupro femminile è stato spesso utilizzato come strumento narrativo quasi necessario alla crescita del personaggio. Una sua presenza viene giustificata come catalizzatore di trasformazione, forza o maturazione, ma nella forma di un trauma inevitabile. Questo approccio riduce le donne a vittime passive, il cui percorso esistenziale ruota fondamentalmente attorno alla violenza subita.
Diversi articoli evidenziano (qui e qui) come spesso la violenza sessuale femminile venga utilizzata non per approfondire l’esperienza soggettiva della sopravvissuta, ma per motivare la trama o sviluppare personaggi maschili secondari, risultando spesso in una narrazione pigra o dannosa.
In campo accademico, Lenise Prater sostiene che molti romanzi fantasy perpetuano implicitamente schemi della cultura dello stupro, riproducendo narrazioni che normalizzano la violenza proprio perché inserite in un contesto “epico” o “mitico”.
Il fenomeno è particolarmente evidente nella narrativa italiana di dark fantasy e grimdark, dove si osserva una tendenza crescente a utilizzare lo stupro come trauma centrale per personaggi femminili (o queer), spesso strumentalizzato per enfatizzare ambientazioni dure, orizzonti cupi o per giustificare una svolta “edgy”. Sebbene non siano spesso presenti analisi critiche formali, i lettori e le lettrici segnalano sempre più frequentemente (altro articolo qui) un uso tropoistico e stereotipato della violenza sessuale femminile (e queer) come “norma” narrativa in questo panorama locale di genere.
Questo modello sacrifica l’interiorità e l’agency delle protagoniste. Lo stupro diventa quasi un passaggio obbligato per consentire loro una vita “vera” dopo il trauma, anziché essere una cruda esperienza da ricostruire con cura narrativa e riflessione. In questo modo:
- il trauma diventa semplicemente un “passaggio” narrativo,
- la narrazione sorretta da dinamiche patriarcali inconsapevoli o indifferenti,
- e la protagonista emerge spesso come oggetto di violenza più che soggetto di trasformazione.
Contrastare questa tendenza significa ridefinire la funzione del trauma: non come condizione prestabilita o rituale narrativo, ma come esperienza che richiede focalizzazione interna, raffinata gestione emotiva, e soprattutto agency post-trauma, anche quando il dolore rimane centrale.
Evitare il “voyeurismo del trauma”
Esiste un fenomeno in cui il dolore queer viene consumato come intrattenimento da un pubblico che non lo vive. Questo accade quando:
- la storia si crogiola nei dettagli della violenza,
- i personaggi queer sono privati di interiorità e spessore,
- il trauma è mostrato come inevitabile o “destino naturale” della loro identità (“sei frocio e quindi te lo meriti”).
Contro questa tendenza, l’autore può:
- Scegliere di raccontare l’evento traumatico con focalizzazione interna, filtrato dalla percezione del personaggio.
- Usare l’ellissi: il non-detto può avere un impatto emotivo più forte di una descrizione minuziosa.
- Restituire al personaggio la centralità, non all’atto traumatico.
Dal “trauma porn” al wholesome romance queer
Nel sottogenere del romance MM – sia in lingua inglese che nelle prime ondate di autopubblicazioni italiane – il trauma queer ha spesso occupato una posizione quasi obbligata in passato (ma anche ora, eh). Le trame ruotavano frequentemente attorno a giovani uomini (spesso scritti come twinkini dolcini e puri, innocenti fiori di campo) cacciati di casa, respinti dalla famiglia, vittime di violenza fisica o psicologica.
La funzione narrativa era duplice:
- Drammatizzare l’ingresso nella relazione — il partner “salvatore” diventava l’ancora di salvezza, a volte in una dinamica paternalistica esplicita (daddy/boy).
- Legittimare l’intensità emotiva — il trauma giustificava una connessione immediata e totalizzante, evitando un vero sviluppo relazionale graduale.
Questa impostazione, pur partendo da esperienze reali, rischiava di cristallizzare un modello narrativo in cui l’amore queer era sempre e solo un rifugio dalla violenza del mondo.
Chi scrive questo articolo ha una profonda passione per le storie daddy/boy, ma solo quando questo rimane un kink erotico e non una condizione di vita necessaria in cui c’è il totale annullamento di uno dei personaggi in virtù dell’essere salvato da quello che viene percepito come “l’uomo della coppia” (sull’argomento del come spesso le autrici donne cis di romance MM riversino le loro condizioni femminili nei personaggi considerati “passivi” e siano incapaci di scrivere di uomini veri e propri è un discorso che affronteremo un’altra volta, ma chi scrive lo ritiene un classico esempio di legge del taglione: dopotutto la letteratura è piena di uomini incapaci di scrivere di donne).
Halberstam (2011) evidenzia che il problema non è rappresentare il trauma, ma ridurlo a condizione sine qua non dell’esperienza queer narrata. Il rischio è duplice:
- per il pubblico queer, interiorizzare l’idea che la felicità sia sempre preceduta (e giustificata) da una sofferenza estrema;
- per il pubblico non queer, consolidare lo stereotipo che l’esistenza LGBTQIA+ sia definita unicamente dalla marginalità e dal bisogno di salvezza esterna ed estrema.
Negli ultimi anni, complice il successo di autori e autrici che hanno proposto trame più sfaccettate e positive, si è affermato un filone di romance queer wholesome. In queste opere:
- i personaggi possono avere un passato sereno o semplicemente ordinario,
- la trama non necessita di un “evento traumatico” come punto di partenza,
- il conflitto centrale può derivare da ostacoli quotidiani o dinamiche interne alla coppia,
- la felicità non è un risarcimento del dolore, ma una condizione a cui si tende per scelta e desiderio reciproco.
Questa transizione segna un passaggio importante: il romance queer non è più costretto a giustificare la propria esistenza letteraria con la tragedia, ma può essere uno spazio di immaginazione affermativa, dove la queerness è parte integrante — e non problematizzata — della quotidianità.
La rappresentazione post-trauma: cosa succede dopo
Uno dei modi più potenti per raccontare il dolore queer senza spettacolarizzarlo è mostrare la vita che continua. La narrativa tradizionale tende a fermarsi al momento clou della sofferenza; invece, vedere un personaggio queer costruire relazioni, trovare comunità, vivere momenti di gioia dopo il trauma manda un messaggio rivoluzionario: il dolore non è l’ultima parola. Né ci definisce come persone.
Oltre il trauma: il valore della gioia
Come afferma José Esteban Muñoz (2009), la queerness è anche un orizzonte utopico: raccontare la gioia queer, la quotidianità, l’intimità, significa sottrarre la narrazione al monopolio del dolore. Bilanciare trauma e momenti di pienezza restituisce ai personaggi la loro complessità e afferma l’esistenza di futuri possibili.
Per finire
Scrivere il dolore queer senza spettacolarizzarlo richiede un approccio che coniughi rigore etico, consapevolezza teorica e sensibilità narrativa (che non è una cosa per tutti, spesso si va a tentativi).
Significa riconoscere che il trauma non è un artificio, ma un’eredità storica e un’esperienza incarnata; che la rappresentazione ha un impatto reale su chi legge; che la narrativa ha il potere di trasformare il dolore in memoria, in resistenza e in immaginazione di altri mondi.
Come scrive Ahmed (2017): “Parlare del dolore queer è un atto di cura, se e solo se lo facciamo per restituire potere a chi lo ha vissuto, non per sottrarglielo.”
Bibliografia essenziale
- Ahmed, S. (2017). Living a Feminist Life. Duke University Press.
- Bal, M. (1997). Narratology: Introduction to the Theory of Narrative. University of Toronto Press.
- Baldwin, J. (1956). Giovanni’s Room. Dial Press.
- Bechdel, A. (2006). Fun Home: A Family Tragicomic. Houghton Mifflin.
- Butler, J. (2004). Precarious Life. Verso.
- Butler, J. (2009). Frames of War. Verso.
- Caruth, C. (1996). Unclaimed Experience: Trauma, Narrative, and History. Johns Hopkins University Press.
- Halberstam, J. (2011). The Queer Art of Failure. Duke University Press.
- Hollinghurst, A. (2004). The Line of Beauty. Picador.
- Kaplan, E. A. (2005). Trauma Culture: The Politics of Terror and Loss in Media and Literature. Rutgers University Press.
- Muñoz, J. E. (2009). Cruising Utopia: The Then and There of Queer Futurity. NYU Press.
- Sedgwick, E. K. (1990). Epistemology of the Closet. University of California Press.
Articolo di Daniela Barisone | Lux Lab
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