Lo sferragliare di chiavi interruppe il brusio del pubblico, dal massiccio portone ora spalancato, entrò con passo incerto un esile figura dall’aspetto ingobbito e triste. l’imputato venne condotto al banco, i mormorii ripresero a farsi pressanti.
Tum tum tum, echeggiò il martello, «Silenzio in aula!» fece eco il giudice,
«siamo qui oggi, per dare all’imputato la possibilità di appellarsi alla clemenza della corte, innanzitutto la parola vada all’accusa, che ci rammenti i capi di imputazione».
Fece un breve cenno con la testa indicando all’accusa di farsi avanti, precedette il suo intervento con un breve applauso composto subito seguito da quanti sedevano tra le prime file.
«Dunque, tutti noi conosciamo in maniera approfondita la faccenda, in ragione di ciò, non credo di dover andare troppo a fondo con le spiegazioni. Ad ogni modo, vorrei sottolineare alcuni fatti che ritengo fondamentali per meglio comprendere la natura dell’imputato.
Mi raccomando al vostro buon senso, pregandovi di non lasciarvi trarre in inganno dalla costui maschera, per quanto il viso e la personalità siano a tutti familiari e anzi oserei dire cari, altro non sono che il travestimento di un ozioso, un inetto, il quale troppo allungo è sfuggito al giudizio… fino a oggi. Oggi il giudizio spetta a voi tutti».
«Cominciamo dunque» incalzò il giudice, che da qualche istante prima aveva cominciato a strofinare nervosamente l’urna che teneva accanto.
«Certamente vostra grazia, l’accusa mossa a quest’uomo è di aver perso per ben due volte ciò che di più prezioso avevamo nelle nostre vite, ciò che diceva avere di più caro, alla quale per nessun motivo al mondo avrebbe permesso che vi si arrecasse danno. Alcuni tra voi… sarebbero tentati di dar colpa all’avverso fato, a interventi di terzi, che la condussero a quell’ignominiosa fine. Ma io vi dico signori, che le colpe a una più attenta analisi, sono tutte imputabili a quest’uomo. In principio, abiurò ai suoi compiti non essendoci nel momento del bisogno, in seguito fallendo miseramente quando tentò di soccorrerla. Queste mancanze poi, son tanto più miserevoli se si tiene conto dell’ascendenza che lo contraddistingue, quel tanto vantato sangue divino che così grandi poteri gli aveva concesso… nonostante tutto questo, l’imputato riuscì a fallire, e in maniera così plateale, quasi tragica oserei dire, se non si corresse il rischio in seguito di affibbiargli l’epiteto di eroe in questo genere di cose…». Fermò per qualche attimo il costante incedere su e giù per l’aula, e restò a riflettere con le braccia incrociate al petto mentre con una mano si massaggiava il mento, «no, costui non è un eroe, merita tutto il vostro disprezzo, la pena più severa non potrà che risarcire solo marginalmente il mondo per la perdita che ha provocato. Con questo concludo vostro onore» e ciò detto tornò a sedersi.
«Bene, giustissimo, bravo!» esclamò il giudice applaudendo; accorgendosi di aver attirato le attenzioni del pubblico si ricompose, si schiarì la voce e si rivolse all’imputato.
«Se l’imputato vuole replicare ne ha facoltà».
L’uomo aveva lo sguardo basso, perso nel vuoto, un vuoto impercettibile al resto del mondo, bisbigliò qualcosa: «vi ricorda o boschi ombrosi, de’ miei lunghi aspri tormenti, quando i sassi a’ miei lamenti rispondan fatti pietosi? Dite allor non vi sembrai più d’ogni altro sconsolato? Sol per te bella Euridice, sol per te bella Euridice…»* tutti tesero l’orecchio per tentare di decifrare una qualche frase, ma nessuno (oltre voi, anime pellegrine estranee alla trama, che osservate da un punto di vista privilegiato le altrui miserie, ansiosi di saziare un vuoto capriccio.. una curiosità, per sfuggire al continuo incalzare delle vostre vite), carpì i segreti di quelle parole sussurrate al silenzio.
Si costrinse ad alzarsi e pronunciò il suo discorso a voce alta, «signori della giuria, rappresentanti delle leggi morali che agli uomini gli dèi affidarono, vorrete perdonarmi, ma non invocherò clemenza. Sia ben chiaro però che non sarà per superbia, per una supposta mia superiorità a tutti voi presenti, o per mancata fiducia nelle vostre intenzioni. Lo faccio, in quanto colpevole di ciò di cui sono accusato, colei che ho amato, giace tra le ombre dell’Ade solo per una mia mancanza… per una mia colpa». Ci fu una pausa e tutti smaniarono per ascoltare il proseguo del suo discorso.
«La mia storia la conoscete ormai in dettaglio, così come i moti dell’animo che mi spingono alla parola, e dunque saprete che sarò sincero nella la mia confessione… non fu per amore che la persi, ma per brama». Il brusio crebbe fino a trasformarsi in un groviglio di grida e chiacchiere dissonanti, tum tum tum, «silenzio in aula! Fate silenzio o sarò costretto a chiudere il processo per continuare in privato!»
Rivolgendosi all’imputato, lo indicò con le sue dita grassocce, «continui pure Messer Orfeo, stavate procedendo bene».
«Certo signor giudice» riprese la triste figura dal vuoto sguardo, «mi è stata portata l’accusa di avere sangue divino, come se ciò avrebbe dovuto darmi il potere di cambiare il corso degli eventi… ebbene vi dico, che non vi è al mondo creatura più miserevole di un semidio, esso infatti racchiude ambizioni e debolezze di entrambe le nature, una creatura incompleta, incapacitata a raggiungere ciò che in due nature divise sarebbe stato in grado di portare a termine. Durante tutto il cammino di ritorno dall’Ade, desiderai di rivedere il suo viso, di stringere quelle carni alle mie, di ricevere perdono per la mia mancanza. Nel momento in cui ce ne sarebbe stato più bisogno… ero lontano, a inseguire sogni che non sarei mai stato in grado di raggiungere. Il desiderio cresceva ad ogni passo, mentre il richiamo della sua voce diveniva sempre più flebile, sottile, lontano.
Lentamente, passavo dall’ascoltare quel suono setoso e dolce, al lanoso prurito del caotico mondo circostante. Furono questi sentimenti che mi spinsero a voltarmi, nell’attimo stesso in cui infransi la mia promessa, la vidi trascinata via nell’oscurità di quelle mefitiche ombre». Il suo sguardo ormai vagava in tempi lontani, in ricordi sterili, che tramutavano i loro dolci frutti, in aspri rimpianti.
La folla cadde in un sacrale silenzio,
«Con le mie arti posso domare le ferali bestie e piegare la natura stessa ai miei voleri, ma non sono stato in grado di salvarla, neanche meno di guadagnare un istante per invocare il suo perdono, per farle sapere quanto mi mancasse, che senza lei non sono più in grado di amare, non sono più in grado, di sopportare questa insensata vita… quindi… eccovi i motivi per cui merito la mia sorte, perché non sono stato in grado di fare l’unica cosa che avrebbe avuto senso fare a questo mondo. Non appesantite il vostro spirito nel prendere una decisione, poiché non deciderete che su un contenitore vuoto, il mio spirito giacque morto nell’Ade quello stesso giorno… L’amore, quale percezione profondamente sbagliata abbiamo di questo concetto, lo consideriamo come uno tra i più belli e alti tra i sentimenti, ma è un dono avvelenato. Più fulgido e vivo è ciò che descrive, più grande e penoso sarà lo strascico di dolore, il vuoto, che lascerà quando arriverà all’inesorabile fine», con queste parole tornò a farsi piccolo dietro il banco a cui era seduto.
All’opposto, il giudice sembrava ingrandirsi a vista d’occhiò con il procedere degli eventi, tanto che ormai quasi la cattedra non conteneva più le sue membra, «la giuria ha raggiunto un verdetto?»
Un incaricato si alzò in piedi e sentenziò: «in coscienza, e per i poteri da te conferitici, ti giudichiamo colpevole, ti condanniamo a scontare la pena maggiore, la morte», l’urna vibrò emettendo un suono cupo.
Orfeo aprì gli occhi solo per trovarsi ancora una volta al mondo, seduto tra i famigliari boschi della sua giovinezza, il frinire delle cicale opprimeva i suoi pensieri, due figure gli si imponevano innanzi, una un uomo alto dalla muscolatura perfetta, portava un arco d’oro dietro la schiena, mentre il suo capo, era cinto da una corona d’alloro. «Dunque il tuo fato è deciso, permettimi quantomeno di portare questo ricordo tra le imperiture sale dell’olimpo», disse raccogliendo la lira dell’uomo, «ciò che con il tuo ingegno creasti vivrà in eterno, lascia che nel tempo la tua opera sia lume per il cammino di quanti come te, sono persi su questo mondo, chi può dirlo, forse un giorno ti darà il riscatto che hai così ardentemente desiderato».
Il giovane fece un leggero cenno di assenso con la testa, e la figura sparì così come era apparsa, in un battito di ciglia. Ora solo una bellissima donna in abiti scuri gli rimaneva accanto, tutto attorno si ammantava di un lugubre silenzio. Con una mano la donna gli carezzo il viso, con gentilezza lo aiutò a sollevarsi, il suo tocco era gelido, una rassegnata pace si impadronì di Orfeo, «vieni, seguimi per questi sentieri, ti prometto che non sarai mai perso, non proverai mai più dolore o tormenti, d’ora in poi… vi sarà solo pace, seguimi, lascia che ti conduca ai tuoi ultimi festeggiamenti.»

*Claudio Monteverdi: l’Orfeo

Racconto di Primiano dell’Aquila